lunedì 30 gennaio 2012

SCARTAFACCI

Deposito nel blog i raccontini imperfetti, crudi, impervi; accatasto nel blog gli scartafacci brevi, le nugae. I filologi devono imparare a scartabellare, annusare. Nessuno creda che qui brillino le opere migliori. Niente bello stile, niente trama. Frammenti ormai invecchiati, esclusi. Non voglio che se li mangi l'umido. Qui saranno al sicuro, forse...

IL PICCOLO MARCELLO






Ai piedi del vaso di frutta c’era un po’ d’acqua dove stava annegando vibrante a zampe all’insù una mosca. La luce del sole filtrata dalle seriche cortine ondeggianti scherzava sull’intavolato formando infinite screziature luminose. Il ragazzino leggeva il libro; s’udiva a tratti lentamente il voltar delle pagine, ma da dietro la porta irruppero dei rumori. Il padre e la madre stavano discutendo più ferocemente del solito per futili motivi. Marcello sollevò lo sguardo, abbandonò il libro, s’alzò dalla sedia e andò verso la porta: aprì un leggero spiraglio e osservò. Vide il viso del padre contratto nell’atto di urlare, gli occhi sgranati e torvi, la mascella quadra dai nervi del collo tutti tesi, mentre ad un angolo la madre s’era accasciata s’una sedia e si portava una mano agli occhi, il petto le si alzava e abbassava profondamente.
Marcello non poteva sopportare ancora quella vista e udire quelle parole, allora d’un subito trottolò via e si dileguò giù per le scale trafelato. Aprì il cancello e fuggì per il sentiero che conduceva nel bosco. Nei campi un vecchio contadino stava zappando la terra, ogni tanto si fermava appoggiandosi alla vanga e si asciugava il sudore del viso con una pezza. Accanto al ciglio del sentiero un trattore giaceva abbandonato nella maggese, avvolto da gramigne e dall’edera che sembrava che lo stringesse. Le casipole nei campi luccicavano sotto il sole, i tetti d’ardesia.
Marcello giunse alla grande quercia che apriva i rami al cielo come un buon vegliardo dispensatore di saggi consigli: la chioma si stagliava nell’azzurrità del cielo solcato da stormi d’uccelli emigranti e cirri sparsi. Al di là i colli verdi e coltivati brillavano carezzati dalla luce.
Marcello s’adagiò al suolo, sedendo ai piedi della quercia con la schiena poggiata alla corteccia, poco vicino ad una fila di nere formiche che s’ammusavano appena proseguendo perpetuamente a fluire.
Osservava le paperelle starnazzanti che si rincorrevano e beccavano amorevoli nella profonda pozzanghera allato dell’autostrada, che correva dal mare ai monti; adocchiava i merli che zampettavano nella ghiaia saltellando a tratti e muovendo il capino a scatti come a dir di no; contemplava l’ombra delle foglioline della quercia che fremevano alla brezza formando un concerto di vibrazioni.
Ma già da sotto il basso cavalcavia dell’autostrada su per il sentierucolo stava giungendo in sella al motorino Matteo, lasciando dietro di sé una scia di polvere che si gonfiava e sperdeva nella brezza sotto il sole luccicante che screziava le cromature dello scooter.
Matteo riccioluto e dagli occhi vivi di sarcasmo frenò sgommando nella ghiaia e con voce roca disse:
«Marcello! Che fai? Dove vai?»
«Niente... non lo so...»
«Salta su ché ti faccio vedere una cosa!»
«E va bene...»
Titubante e lento come un bradipo Marcello salì in sella, abbarbicandosi ai fianchi del tipo con il quale di solito non aveva molta confidenza, e lo scooter schizzò via nella ghiaia.
Era bello starsene seduti dietro in sella ad osservare come un cosmorama il paesaggio che filava via come un film: i campi arati, la maggese con i greggi di pecore sciamanti oziose e il pastore che giaceva sotto un olivo addentando il panino col fiaschetto di rosso allato, le villette nuove di zecca coi giardini ben tosati e i cagnacci che tiravano la catena alzando le gambe anteriori rampanti e sbraitando, mostrando la chiostra bavosa dei denti come se fossero pronti a sbranare la preda, e ancora campi e dall’altro lato il crepaccio brulicante di pioppi che rovinava verso un torrentaccio spumoso e indiavolato che correva dritto fino al fiume nel bosco.
Corri corri con lo scooter imboccarono un sentierucolo ancor più stretto che serpeva in alto fino alla cima d’un colle dove s’elevava una vecchia casa colonica incustodita (una delle tante del conte) con un fienile davanti.
Sgommò Matteo e sceso Marcello abbandonò lo scooter al suolo accanto ad altri tre motorini e due biciclette, una mountain bike e una da cross.
La facciata della casa con le scalette che salivano al secondo piano era tramata d’edera. Matteo prese per mano Marcello e lo condusse al fienile dove il gruppetto s’assiepava attorno ad una coppia che copulava. Fili di sole filtravano appena dal tetto di tavole e dei colombi frullavano brevemente rugugliando appena.
Marcello scorse attraverso le gambe dei ragazzi una bellissima fanciulla stesa al suolo seminuda montata da un ragazzotto robusto. Il profilo rivelava un nasino all’insu e labbra gentili e la chioma bruna le cadeva disciolta tutt’attorno; aveva indosso una camicetta azzurra tirata su fino al collo; un seno poco accennato s’intravedeva stretto dalla morsa d’una mano dalle dita tozze; il corpo era bianco, le gambe erano aperte, magre e accoglievano la furia del ragazzotto dalle natiche muscolose.
«Guardate chi v’ho portato!» sussurrò Matteo agli altri che assistevano; quelli si voltarono appena modulando un leggero sorriso di scherno e fecero ala lasciando passare i due.
Il ragazzotto aveva finito, s’alzò e si rivestì con calma; aveva il viso placido d’una bestiola che ha compiuto il suo dovere e ora può dedicarsi ad altro.
La fanciulla voltò il viso verso di loro, paonazzo, stanco, ma deciso; gli occhi le ridevano pur nella degradazione.
«E questo chi è?»
«Matta, t’ho portato un amico mio: si chiama Marcello!»
«Vieni piccolo, vieni qui con me, fammi vedere cosa sai fare!» ed emise un risolino.
Gli altri ragazzi tutt’intorno si sganasciarono. Marcello ebbe paura, il viso gli s’imporporò per la vergogna, d’un tratto prese la risoluzione e scappò sguisciando via tra due scherani increduli.
La ragazza scoppiò a ridere a gambe aperte, Matteo le si avvicinò dandole uno schiaffo.
«Zitta matta, non vedi che l’hai fatto scappare?»
«Ma se siete voi che lo avete spaventato!»
Marcello uscì, afferrò la bici da cross, montò e scappò. Gli altri uscirono.
«Pezzo di merda! Ridammi la bici!» urlò uno e avrebbe voluto prendere la mountain bike del compare per inseguirlo.
«Lascialo perdere: domani te la restituisce. Entriamo piuttosto, altrimenti chi la becca più la matta!» gli dice l’altro. Afferra dei sassolini e li tira al fuggitivo urlando:
«Fifone! Cagasotto! Bambino!»
Poi entrarono tutti cupidi della bianca carne della fanciulla, i pensieri arrovellati da brame bestiali.
Marcello fuggì e avrebbe voluto piangere per tutto quello che aveva visto; alberi, case e colli s’accampavano davanti e avrebbe pedalato all’infinito se avesse potuto, per lasciarsi indietro tutto.
Ma d’un tratto cominciò ad avvertire un miagolio disperato e chiaro provenire dal ciglio della strada dalla parte del breve crepaccio. Nessuno lo inseguiva dunque si fermò e andò a vedere. Si affacciò e scorse in mezzo a un groppo di rametti e sterpi un micetto nero che miagolava con tutta la forza che aveva in corpo tremando. S’era rifugiato là dentro, forse la tana preparata dalla madre, ma la gatta non c’era più e gli altri cuccioli erano svaniti; poco più in là rovinava il terreno discosceso fino al torrente che spumava tra i sassi aguzzi. Con la mano abbrancò il felino: il pelo lo rendeva più grande di quello che era, in verità il corpicino era magrissimo. Accarezzò il micetto e lo infilò nella tasca della felpa.
Ribalenò un poco il sereno nel cuore di Marcello ora che aveva con sé il gattino appena salvato. Avrebbe girellato ancora per un po’, sarebbe andato in paese e solo verso sera sarebbe rincasato. Ma doveva imboccare colla bici la strada transitatissima che attraversava il ponte per arrivare al paese.
La strada appariva poco lontano, al di là d’un’alta quercia, e si avvertiva per il fluire continuo di auto, bus e tir.
Ma ora Marcello era contento e spavaldo e non gl’importava più di nulla e pedalava come un forsennato e non sentiva quasi fatica alle gambe e il gattino sembrava essersi acquattato nel taschino della felpa.
Imboccò con destrezza la strada maestra e si tenne sulla striscia bianca allato e stava giusto traversando il ponte, quello che ricostruirono dopo la guerra, perché fu fatto saltare dai tedeschi, ed era più felice ed era spavaldo perché mille immagini gli mulinavano pel capo rincorrendosi, il viso contratto e rabbioso del padre, la madre accasciata sulla sedia, la mosca che annegava nell’acqua, i rami del pioppo che battevano alla sua finestra, la quercia, lo scooter lucente di Matteo, il fienile, il corpo bramoso e disponibile di lei, il lampo voluttuoso dei suoi occhi, la fuga, la breve sassaiola, il micetto e ora la strada e una ridda di pensieri s’assiepavano nella mente ipereccitata distribuendosi disordinati ma d’un tratto mentre sempre sul ciglio stava per attraversare il ponte s’udì il clacson d’un auto che lo superò ecco che il micetto si ridestò e s’impaurì e allora fremette e graffiò e avrebbe voluto uscir fuori dalla tasca e infilò le unghie nella pelle sotto la felpa e Marcello con l’altra mano nel manubrio cercò di trattenerlo poiché aveva ora tirato fuori il capino e le ugne e così facendo perdette l’equilibrio il micio si liberò dalla morsa e balzò via e Marcello cadde dalla bici e l’auto che veniva dietro sterzò ma colpì lo stesso il capo del ragazzo col parafango e frenò e un tir che proveniva dall’altra corsia si accostò di gitto e il corpo del giovane giacque al suolo una ferita gli s’aprì nella nuca ed uscì copioso il sangue andando ad imbrattare l’asfalto e il conducente dell’auto uscì e si gettò le mani nei capelli e già dalla stradina secondaria da dov’era il giovane provenuto un gruppo di persone correva urlando.
E il sole picchiava sull’asfalto furiosamente.




Primo De Vecchis


                                                                                                                                 

domenica 29 gennaio 2012

RIVIERA DI LUCE OPACA


D’estate Enrico e i suoi genitori abitavano in un garage e in una soffitta d’un alto palazzo. Dentro il garage c’era una casa in miniatura: fornelli con la bombola a gas, tinello, lavandino, scansie, tavolinetto e un minuscolo bagno al quale si accedeva attraverso tre scalini e che aveva una sola lampadina pendente da un filo come un impiccato. Nella soffitta del palazzo c’erano invece due stanze, costruite in un soppalco: solo Enrico con i suoi genitori abitavano lì: le altre stanze erano usate come sgabuzzini dalle diverse famiglie del condominio. Enrico aveva una minuscola cameretta tutta per sé, con una finestrella sul tetto che scendeva obliquamente, formando un angolo ottuso. Da lì entrava la luce la mattina, svegliandolo. Enrico, ancora fino a una certa età, dormiva nudo sopra il materasso. Di notte saliva fino al terrazzo tutto lastricato di piastrelle e da lì, aggrappandosi stretto alle sbarre sottili del parapetto scrutava estasiato la città. C’erano tanti palazzi attorno a quello, con tanti terrazzi, alcuni coltivati come giardini pensili, ma quello era uno degli edifici più alti e centrali della città. Da un lato mormorava il mare, nero, rischiarato solo da una striscia di luna, la quale pendeva sulle onde come la lampadina del bagno. Dall’altro lato si elevavano le colline che inghirlandavano la città. S’una collina v’era un’enorme croce illuminata dal basso da un faro, sempre acceso: accanto alla croce, per un effetto ottico, sembrava aprirsi una grotta; poco lontano, dietro la collina, si snodava diritta l’autostrada che in un punto della città, tra una collina e l’altra, sopra la gola scavata dal torrente, poggiava sopra altissimi pilastri, che avevano sempre impressionato il piccolo Enrico. Ma ancor più paura gli faceva quella croce enorme, illuminata dal basso, con quella presunta grotta dalla quale pareva che da un momento all’altro sbucassero strane creature, ibridi d’uomini e animali, sospese tra la vita e la morte: Enrico le sognava spesso, nei suoi incubi ricorrenti. Le colline erano buie e la croce spiccava su tutto, mentre il resto della città brulicava di luci e le sere d’estate si potevano udire da lassù le sirene dei clacson o le voci concitate o le musiche ritmate trascinate dalla brezza del mare, provenienti dagli chalet della spiaggia, alcuni dei quali, soprattutto nella settimana di Ferragosto, rimanevano aperti tutta la notte.
Di giorno Enrico se ne stava tutto quieto dietro la bancarella dei genitori, verso la fine del lungomare, vicino ad una pineta, dove il torrente sfocia pigramente in mare. La bancarella era piena di mercanzia artigianale in cuoio: braccialetti sulla cui superficie la madre Orfilia scriveva con mano ferma il nome del cliente, con un trapanino elettrico che solcava la superficie marrone scuro di pelle, lasciando dei tratti chiari e comprensibili; borse rigide di suola, dipinte a mano; cinture in pelle; portamonete e portafogli e altre mille nugae.
Enrico non faceva altro che osservare: soprattutto la multiforme fauna dei clienti, ognuno dei quali aveva una sua peculiarità, una preferenza, un dettaglio unico. Di pomeriggio, quando c’era poca gente, sfogliava un Topolino, abbozzava qualche abile disegno su carta, giocherellava con la Cocca, un bastardino nero che sarebbe dovuto andare al macello ma che loro avevano salvato, oppure correva allo chalet Il bacio dell’onda per sorbirsi un ghiacciolo al limone, rimanendo poi per ore a suggere l’insapore bastoncino, come se fosse una liquirizia.
Il pomeriggio, ma molto presto, passava di lì Mario il giardiniere, che si occupava delle piante d’un’aiuola, al centro della quale sorgevano delle palme: siccome aveva l’abitudine di fare molto rumore, Cocca ogni volta che udiva il suo passo abbaiava ferocemente.
Cocca era il cane più buono del mondo, ma quando sentiva appena solo il fischiettio di Mario il giardiniere diventava una tale belva che neanche Enrico riusciva più a riconoscerla.
Più tardi cominciavano a passare frotte di ragazzine adolescenti e il fanciullo posava i suoi primi sguardi stupiti sui loro visetti furbi e abbronzati, sul loro petto ancora acerbo ma provvisto di chiari reggiseni e sulle loro gonnelle a righe verticali, che oscillavano ai loro passi.
Siccome Enrico amava inventare ogni giorno cose nuove propose un giorno a suo padre di mettersi a disegnare s’un tavolinetto accanto alla bancarella per poi rivendere le singole “opere d’arte” a prezzi modici: chi non avrebbe speso mille lire per avere il disegno estemporaneo d’un ragazzetto di sei anni? Per rendere il quadro più dolce Enrico pensò che Cocca dovesse starsene vicino ai suoi piedi, s’un tappetino.
Fu un successo: in una sola serata vendette ben sessanta disegni e il polso gli doleva per il troppo lavoro. Non era mai stato così felice prima d’ora.
Ma poco tempo dopo però Mario, che s’era messo a lavorare senza guanti, si punse con una siringa: era infetta di virus HIV, e da allora Enrico non lo rivide mai più. Il fanciullo ora stava sempre molto attento: aveva paura delle siringhe. Non era mai andato nella pineta che sorgeva lì vicino, dietro le balaustre, perché il prato brulicava di siringhe, che sembrava crescessero dal terreno. Ogni due settimane due spazzini speciali del comune, tutti bardati da strane tute e muniti di guantoni robusti ripulivano la sabbia vicino al torrente ed alla pineta: era come un cimitero di siringhe; se ne andavano via con i sacchi pieni. Enrico non ci credeva: la notte sognava di correre sulla spiaggia e di essere punto da una, dieci, mille siringhe. Sognava persino delle piccole siringhe alate che come api gli punzecchiavano i polpacci e le braccia.
Quel tratto di lungomare era bello: c’erano le palme, i pini marittimi, la sabbia finissima, la striscia nitida del mare che pareva una pennellata, le biciclette, le ragazze sui pattini, eppure ogni settimana gli spazzini raccoglievano centinaia di siringhe.
Enrico ne aveva visti pochi di drogati: di giorno si nascondevano altrove, soprattutto vicino alle vaste pinetine situate tra un ampio viale e la ferrovia. Provavano vergogna nel mostrarsi agli altri, erano sempre molto magri, senza natiche quasi, e camminavano come tanti zombie, bofonchiando con voci flebili e roche. Enrico capiva che non erano cattivi, ma erano pericolosi, perché la loro mente era come posseduta da qualcun altro.
Una sera, vicino alla bancarella, scoppiò un putiferio: un gruppo di giovani sbandati, un po’ su di giri, stavano sfasciando con delle mazze i vetri d’una macchina, al cui interno v’era una famiglia intera. Urlavano tutti dentro quella macchina, una ragazza piangeva persino, ma la folla di passanti se ne stava tutt’intorno a guardare. D’un tratto l’autista arrancò e con una marcia indietro con sgommata se la filò via con i vetri tutti sfasciati. I teppisti balzarono sulle loro moto e li inseguirono facendo un gran baccano. La folla si diradò e il lungomare assunse il suo gaio aspetto: solo alcuni vetri infranti e qualche chiazza di sangue erano lì accanto al marciapiede a testimoniare l’inopinabile evento appena accaduto.
Una mattina Enrico uscendo dal garage vide due ragazzi in sella al motorino che scipparono una vecchia strattonandola e facendola cadere al suolo.
La mente di Enrico ancora immatura era però già abituata a unire i fatti tra loro, in fasci di associazioni. Così Mario che si pungeva con una siringa, il drogato che gli chiedeva qualche spicciolo, i teppisti che con le mazze sfasciavano l’auto, gli scippatori, le siringhe che sbucavano dal terreno, la croce con i mostri danzanti intorno: tutte queste immagini si univano, confondevano ed Enrico faceva fatica ad addormentarsi e il rombo del treno, nella ferrovia che correva lì accanto, lo faceva trasalire nel cuore della notte. Neanche la luce della luna lo allietava con la sua presenza. Il mondo in quei frangenti gli appariva così terribile!

INCIPIT

Per i racconti brevi in Italia "non c'è mercato". Inizierò quindi a pubblicare su questo blog proprio dei racconti brevi, affinché non precipitino nell'oblio al quale un destino sociale avverso li ha fatti precipitare.