domenica 29 gennaio 2012

RIVIERA DI LUCE OPACA


D’estate Enrico e i suoi genitori abitavano in un garage e in una soffitta d’un alto palazzo. Dentro il garage c’era una casa in miniatura: fornelli con la bombola a gas, tinello, lavandino, scansie, tavolinetto e un minuscolo bagno al quale si accedeva attraverso tre scalini e che aveva una sola lampadina pendente da un filo come un impiccato. Nella soffitta del palazzo c’erano invece due stanze, costruite in un soppalco: solo Enrico con i suoi genitori abitavano lì: le altre stanze erano usate come sgabuzzini dalle diverse famiglie del condominio. Enrico aveva una minuscola cameretta tutta per sé, con una finestrella sul tetto che scendeva obliquamente, formando un angolo ottuso. Da lì entrava la luce la mattina, svegliandolo. Enrico, ancora fino a una certa età, dormiva nudo sopra il materasso. Di notte saliva fino al terrazzo tutto lastricato di piastrelle e da lì, aggrappandosi stretto alle sbarre sottili del parapetto scrutava estasiato la città. C’erano tanti palazzi attorno a quello, con tanti terrazzi, alcuni coltivati come giardini pensili, ma quello era uno degli edifici più alti e centrali della città. Da un lato mormorava il mare, nero, rischiarato solo da una striscia di luna, la quale pendeva sulle onde come la lampadina del bagno. Dall’altro lato si elevavano le colline che inghirlandavano la città. S’una collina v’era un’enorme croce illuminata dal basso da un faro, sempre acceso: accanto alla croce, per un effetto ottico, sembrava aprirsi una grotta; poco lontano, dietro la collina, si snodava diritta l’autostrada che in un punto della città, tra una collina e l’altra, sopra la gola scavata dal torrente, poggiava sopra altissimi pilastri, che avevano sempre impressionato il piccolo Enrico. Ma ancor più paura gli faceva quella croce enorme, illuminata dal basso, con quella presunta grotta dalla quale pareva che da un momento all’altro sbucassero strane creature, ibridi d’uomini e animali, sospese tra la vita e la morte: Enrico le sognava spesso, nei suoi incubi ricorrenti. Le colline erano buie e la croce spiccava su tutto, mentre il resto della città brulicava di luci e le sere d’estate si potevano udire da lassù le sirene dei clacson o le voci concitate o le musiche ritmate trascinate dalla brezza del mare, provenienti dagli chalet della spiaggia, alcuni dei quali, soprattutto nella settimana di Ferragosto, rimanevano aperti tutta la notte.
Di giorno Enrico se ne stava tutto quieto dietro la bancarella dei genitori, verso la fine del lungomare, vicino ad una pineta, dove il torrente sfocia pigramente in mare. La bancarella era piena di mercanzia artigianale in cuoio: braccialetti sulla cui superficie la madre Orfilia scriveva con mano ferma il nome del cliente, con un trapanino elettrico che solcava la superficie marrone scuro di pelle, lasciando dei tratti chiari e comprensibili; borse rigide di suola, dipinte a mano; cinture in pelle; portamonete e portafogli e altre mille nugae.
Enrico non faceva altro che osservare: soprattutto la multiforme fauna dei clienti, ognuno dei quali aveva una sua peculiarità, una preferenza, un dettaglio unico. Di pomeriggio, quando c’era poca gente, sfogliava un Topolino, abbozzava qualche abile disegno su carta, giocherellava con la Cocca, un bastardino nero che sarebbe dovuto andare al macello ma che loro avevano salvato, oppure correva allo chalet Il bacio dell’onda per sorbirsi un ghiacciolo al limone, rimanendo poi per ore a suggere l’insapore bastoncino, come se fosse una liquirizia.
Il pomeriggio, ma molto presto, passava di lì Mario il giardiniere, che si occupava delle piante d’un’aiuola, al centro della quale sorgevano delle palme: siccome aveva l’abitudine di fare molto rumore, Cocca ogni volta che udiva il suo passo abbaiava ferocemente.
Cocca era il cane più buono del mondo, ma quando sentiva appena solo il fischiettio di Mario il giardiniere diventava una tale belva che neanche Enrico riusciva più a riconoscerla.
Più tardi cominciavano a passare frotte di ragazzine adolescenti e il fanciullo posava i suoi primi sguardi stupiti sui loro visetti furbi e abbronzati, sul loro petto ancora acerbo ma provvisto di chiari reggiseni e sulle loro gonnelle a righe verticali, che oscillavano ai loro passi.
Siccome Enrico amava inventare ogni giorno cose nuove propose un giorno a suo padre di mettersi a disegnare s’un tavolinetto accanto alla bancarella per poi rivendere le singole “opere d’arte” a prezzi modici: chi non avrebbe speso mille lire per avere il disegno estemporaneo d’un ragazzetto di sei anni? Per rendere il quadro più dolce Enrico pensò che Cocca dovesse starsene vicino ai suoi piedi, s’un tappetino.
Fu un successo: in una sola serata vendette ben sessanta disegni e il polso gli doleva per il troppo lavoro. Non era mai stato così felice prima d’ora.
Ma poco tempo dopo però Mario, che s’era messo a lavorare senza guanti, si punse con una siringa: era infetta di virus HIV, e da allora Enrico non lo rivide mai più. Il fanciullo ora stava sempre molto attento: aveva paura delle siringhe. Non era mai andato nella pineta che sorgeva lì vicino, dietro le balaustre, perché il prato brulicava di siringhe, che sembrava crescessero dal terreno. Ogni due settimane due spazzini speciali del comune, tutti bardati da strane tute e muniti di guantoni robusti ripulivano la sabbia vicino al torrente ed alla pineta: era come un cimitero di siringhe; se ne andavano via con i sacchi pieni. Enrico non ci credeva: la notte sognava di correre sulla spiaggia e di essere punto da una, dieci, mille siringhe. Sognava persino delle piccole siringhe alate che come api gli punzecchiavano i polpacci e le braccia.
Quel tratto di lungomare era bello: c’erano le palme, i pini marittimi, la sabbia finissima, la striscia nitida del mare che pareva una pennellata, le biciclette, le ragazze sui pattini, eppure ogni settimana gli spazzini raccoglievano centinaia di siringhe.
Enrico ne aveva visti pochi di drogati: di giorno si nascondevano altrove, soprattutto vicino alle vaste pinetine situate tra un ampio viale e la ferrovia. Provavano vergogna nel mostrarsi agli altri, erano sempre molto magri, senza natiche quasi, e camminavano come tanti zombie, bofonchiando con voci flebili e roche. Enrico capiva che non erano cattivi, ma erano pericolosi, perché la loro mente era come posseduta da qualcun altro.
Una sera, vicino alla bancarella, scoppiò un putiferio: un gruppo di giovani sbandati, un po’ su di giri, stavano sfasciando con delle mazze i vetri d’una macchina, al cui interno v’era una famiglia intera. Urlavano tutti dentro quella macchina, una ragazza piangeva persino, ma la folla di passanti se ne stava tutt’intorno a guardare. D’un tratto l’autista arrancò e con una marcia indietro con sgommata se la filò via con i vetri tutti sfasciati. I teppisti balzarono sulle loro moto e li inseguirono facendo un gran baccano. La folla si diradò e il lungomare assunse il suo gaio aspetto: solo alcuni vetri infranti e qualche chiazza di sangue erano lì accanto al marciapiede a testimoniare l’inopinabile evento appena accaduto.
Una mattina Enrico uscendo dal garage vide due ragazzi in sella al motorino che scipparono una vecchia strattonandola e facendola cadere al suolo.
La mente di Enrico ancora immatura era però già abituata a unire i fatti tra loro, in fasci di associazioni. Così Mario che si pungeva con una siringa, il drogato che gli chiedeva qualche spicciolo, i teppisti che con le mazze sfasciavano l’auto, gli scippatori, le siringhe che sbucavano dal terreno, la croce con i mostri danzanti intorno: tutte queste immagini si univano, confondevano ed Enrico faceva fatica ad addormentarsi e il rombo del treno, nella ferrovia che correva lì accanto, lo faceva trasalire nel cuore della notte. Neanche la luce della luna lo allietava con la sua presenza. Il mondo in quei frangenti gli appariva così terribile!

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