Ai
piedi del vaso di frutta c’era un po’ d’acqua dove stava annegando vibrante a
zampe all’insù una mosca. La luce del sole filtrata dalle seriche cortine
ondeggianti scherzava sull’intavolato formando infinite screziature luminose.
Il ragazzino leggeva il libro; s’udiva a tratti lentamente il voltar delle
pagine, ma da dietro la porta irruppero dei rumori. Il padre e la madre stavano
discutendo più ferocemente del solito per futili motivi. Marcello sollevò lo
sguardo, abbandonò il libro, s’alzò dalla sedia e andò verso la porta: aprì un
leggero spiraglio e osservò. Vide il viso del padre contratto nell’atto di
urlare, gli occhi sgranati e torvi, la mascella quadra dai nervi del collo
tutti tesi, mentre ad un angolo la madre s’era accasciata s’una sedia e si
portava una mano agli occhi, il petto le si alzava e abbassava profondamente.
Marcello non poteva sopportare ancora
quella vista e udire quelle parole, allora d’un subito trottolò via e si dileguò
giù per le scale trafelato. Aprì il cancello e fuggì per il sentiero che
conduceva nel bosco. Nei campi un vecchio contadino stava zappando la terra,
ogni tanto si fermava appoggiandosi alla vanga e si asciugava il sudore del
viso con una pezza. Accanto al ciglio del sentiero un trattore giaceva
abbandonato nella maggese, avvolto da gramigne e dall’edera che sembrava che lo
stringesse. Le casipole nei campi luccicavano sotto il sole, i tetti d’ardesia.
Marcello giunse alla grande quercia che
apriva i rami al cielo come un buon vegliardo dispensatore di saggi consigli:
la chioma si stagliava nell’azzurrità del cielo solcato da stormi d’uccelli
emigranti e cirri sparsi. Al di là i colli verdi e coltivati brillavano
carezzati dalla luce.
Marcello s’adagiò al suolo, sedendo ai
piedi della quercia con la schiena poggiata alla corteccia, poco vicino ad una
fila di nere formiche che s’ammusavano appena proseguendo perpetuamente a
fluire.
Osservava le paperelle starnazzanti che
si rincorrevano e beccavano amorevoli nella profonda pozzanghera allato dell’autostrada,
che correva dal mare ai monti; adocchiava i merli che zampettavano nella ghiaia
saltellando a tratti e muovendo il capino a scatti come a dir di no;
contemplava l’ombra delle foglioline della quercia che fremevano alla brezza
formando un concerto di vibrazioni.
Ma già da sotto il basso cavalcavia dell’autostrada
su per il sentierucolo stava giungendo in sella al motorino Matteo, lasciando
dietro di sé una scia di polvere che si gonfiava e sperdeva nella brezza sotto
il sole luccicante che screziava le cromature dello scooter.
Matteo riccioluto e dagli occhi vivi di
sarcasmo frenò sgommando nella ghiaia e con voce roca disse:
«Marcello! Che fai? Dove vai?»
«Niente... non lo so...»
«Salta su ché ti faccio vedere una cosa!»
«E va bene...»
Titubante e lento come un bradipo
Marcello salì in sella, abbarbicandosi ai fianchi del tipo con il quale di
solito non aveva molta confidenza, e lo scooter schizzò via nella ghiaia.
Era bello starsene seduti dietro in sella
ad osservare come un cosmorama il paesaggio che filava via come un film: i
campi arati, la maggese con i greggi di pecore sciamanti oziose e il pastore
che giaceva sotto un olivo addentando il panino col fiaschetto di rosso allato,
le villette nuove di zecca coi giardini ben tosati e i cagnacci che tiravano la
catena alzando le gambe anteriori rampanti e sbraitando, mostrando la chiostra
bavosa dei denti come se fossero pronti a sbranare la preda, e ancora campi e
dall’altro lato il crepaccio brulicante di pioppi che rovinava verso un
torrentaccio spumoso e indiavolato che correva dritto fino al fiume nel bosco.
Corri corri con lo scooter imboccarono un
sentierucolo ancor più stretto che serpeva in alto fino alla cima d’un colle
dove s’elevava una vecchia casa colonica incustodita (una delle tante del
conte) con un fienile davanti.
Sgommò Matteo e sceso Marcello abbandonò
lo scooter al suolo accanto ad altri tre motorini e due biciclette, una mountain
bike e una da cross.
La facciata della casa con le scalette
che salivano al secondo piano era tramata d’edera. Matteo prese per mano
Marcello e lo condusse al fienile dove il gruppetto s’assiepava attorno ad una
coppia che copulava. Fili di sole filtravano appena dal tetto di tavole e dei
colombi frullavano brevemente rugugliando appena.
Marcello scorse attraverso le gambe dei
ragazzi una bellissima fanciulla stesa al suolo seminuda montata da un
ragazzotto robusto. Il profilo rivelava un nasino all’insu e labbra gentili e
la chioma bruna le cadeva disciolta tutt’attorno; aveva indosso una camicetta
azzurra tirata su fino al collo; un seno poco accennato s’intravedeva stretto
dalla morsa d’una mano dalle dita tozze; il corpo era bianco, le gambe erano
aperte, magre e accoglievano la furia del ragazzotto dalle natiche muscolose.
«Guardate chi v’ho portato!» sussurrò
Matteo agli altri che assistevano; quelli si voltarono appena modulando un
leggero sorriso di scherno e fecero ala lasciando passare i due.
Il ragazzotto aveva finito, s’alzò e si
rivestì con calma; aveva il viso placido d’una bestiola che ha compiuto il suo
dovere e ora può dedicarsi ad altro.
La fanciulla voltò il viso verso di loro,
paonazzo, stanco, ma deciso; gli occhi le ridevano pur nella degradazione.
«E questo chi è?»
«Matta, t’ho portato un amico mio: si
chiama Marcello!»
«Vieni piccolo, vieni qui con me, fammi
vedere cosa sai fare!» ed emise un risolino.
Gli altri ragazzi tutt’intorno si
sganasciarono. Marcello ebbe paura, il viso gli s’imporporò per la vergogna, d’un
tratto prese la risoluzione e scappò sguisciando via tra due scherani
increduli.
La ragazza scoppiò a ridere a gambe
aperte, Matteo le si avvicinò dandole uno schiaffo.
«Zitta matta, non vedi che l’hai fatto
scappare?»
«Ma se siete voi che lo avete spaventato!»
Marcello uscì, afferrò la bici da cross, montò
e scappò. Gli altri uscirono.
«Pezzo di merda! Ridammi la bici!» urlò
uno e avrebbe voluto prendere la mountain bike del compare per inseguirlo.
«Lascialo perdere: domani te la restituisce.
Entriamo piuttosto, altrimenti chi la becca più la matta!» gli dice l’altro.
Afferra dei sassolini e li tira al fuggitivo urlando:
«Fifone! Cagasotto! Bambino!»
Poi entrarono tutti cupidi della bianca
carne della fanciulla, i pensieri arrovellati da brame bestiali.
Marcello fuggì e avrebbe voluto piangere
per tutto quello che aveva visto; alberi, case e colli s’accampavano davanti e
avrebbe pedalato all’infinito se avesse potuto, per lasciarsi indietro tutto.
Ma d’un tratto cominciò ad avvertire un
miagolio disperato e chiaro provenire dal ciglio della strada dalla parte del
breve crepaccio. Nessuno lo inseguiva dunque si fermò e andò a vedere. Si
affacciò e scorse in mezzo a un groppo di rametti e sterpi un micetto nero che
miagolava con tutta la forza che aveva in corpo tremando. S’era rifugiato là
dentro, forse la tana preparata dalla madre, ma la gatta non c’era più e gli
altri cuccioli erano svaniti; poco più in là rovinava il terreno discosceso
fino al torrente che spumava tra i sassi aguzzi. Con la mano abbrancò il
felino: il pelo lo rendeva più grande di quello che era, in verità il corpicino
era magrissimo. Accarezzò il micetto e lo infilò nella tasca della felpa.
Ribalenò un poco il sereno nel cuore di
Marcello ora che aveva con sé il gattino appena salvato. Avrebbe girellato
ancora per un po’, sarebbe andato in paese e solo verso sera sarebbe rincasato.
Ma doveva imboccare colla bici la strada transitatissima che attraversava il
ponte per arrivare al paese.
La strada appariva poco lontano, al di là
d’un’alta quercia, e si avvertiva per il fluire continuo di auto, bus e tir.
Ma ora Marcello era contento e spavaldo e
non gl’importava più di nulla e pedalava come un forsennato e non sentiva quasi
fatica alle gambe e il gattino sembrava essersi acquattato nel taschino della
felpa.
Imboccò con destrezza la strada maestra e
si tenne sulla striscia bianca allato e stava giusto traversando il ponte,
quello che ricostruirono dopo la guerra, perché fu fatto saltare dai tedeschi,
ed era più felice ed era spavaldo perché mille immagini gli mulinavano pel capo
rincorrendosi, il viso contratto e rabbioso del padre, la madre accasciata
sulla sedia, la mosca che annegava nell’acqua, i rami del pioppo che battevano
alla sua finestra, la quercia, lo scooter lucente di Matteo, il fienile, il corpo
bramoso e disponibile di lei, il lampo voluttuoso dei suoi occhi, la fuga, la
breve sassaiola, il micetto e ora la strada e una ridda di pensieri s’assiepavano
nella mente ipereccitata distribuendosi disordinati ma d’un tratto mentre
sempre sul ciglio stava per attraversare il ponte s’udì il clacson d’un auto
che lo superò ecco che il micetto si ridestò e s’impaurì e allora fremette e
graffiò e avrebbe voluto uscir fuori dalla tasca e infilò le unghie nella pelle
sotto la felpa e Marcello con l’altra mano nel manubrio cercò di trattenerlo
poiché aveva ora tirato fuori il capino e le ugne e così facendo perdette l’equilibrio
il micio si liberò dalla morsa e balzò via e Marcello cadde dalla bici e l’auto
che veniva dietro sterzò ma colpì lo stesso il capo del ragazzo col parafango e
frenò e un tir che proveniva dall’altra corsia si accostò di gitto e il corpo
del giovane giacque al suolo una ferita gli s’aprì nella nuca ed uscì copioso
il sangue andando ad imbrattare l’asfalto e il conducente dell’auto uscì e si
gettò le mani nei capelli e già dalla stradina secondaria da dov’era il giovane
provenuto un gruppo di persone correva urlando.
E il sole picchiava sull’asfalto
furiosamente.
Primo De Vecchis
Primo De Vecchis
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