Era
ormai il terzo barbone che veniva trovato morto a Roma negli ultimi due mesi.
Per la precisione con la gola recisa con forza da una mano esperta. Stavolta la
vittima giaceva davanti a un androne buio e sporco a metà strada tra la
stazione Termini e Castro Pretorio. Gli altri due erano stati trovati non molto
lontani da lì, uno nei pressi di San Lorenzo, vicino alla mensa Caritas,
l’altro verso lo Scalo, accanto a un bidone dell’immondizia. Ormai era chiaro
che si trattava di un unico assassino che per oscuri motivi si ostinava a
colpire dei senzatetto indifesi. Poche o nessuna traccia venivano lasciate. Ma
la scia dei delitti faceva impennare le vendite dei giornali e i cronisti di
nera si scervellavano nel seguire le piste più elaborate: estorsione ai danni
dei barboni, regolamenti di conti, spacciatori, prostitute, clandestini. La
polizia fece un blitz persino nei vagoni abbandonati nello scalo dove dormivano
decine di immigrati, per stanare il possibile assassino. Ma si brancolava nel
buio.
Dei
delitti inspiegabili si occuparono ovviamente svariati programmi televisivi. Un
barbone tedesco, giovane e intelligente, divenne persino opinionista fisso,
grazie alle sue competenze e si riscattò quindi da un sicuro destino di
miseria. Una troupe di un programma più volte si aggirò di notte nei pressi di
Termini per intervistare qualche derelitto senza denti: quell’esempio di
raffinato realismo sociale si guadagnò un discreto successo di pubblico.
Finché
una sera una giovane studentessa americana un po’ brilla non notò qualcosa di
strano. In una viuzza nei pressi di piazza dei Cinquecento un barbone con la
bottiglia in mano e una coperta addosso sembrava prima parlare e poi discutere
con un tizio di corporatura robusta con un cappotto che gli arrivava fino ai piedi.
Il barbone sferrò una bottigliata in testa al tizio e cercò goffamente di
scappare inciampando quasi nella coperta bucherellata. Il tizio fece per
inseguirlo e agguantarlo, nonostante gli colasse del sangue da una tempia, ma
la studentessa, testimone del gesto, cacciò fuori un urlo, allora il tizio
subito si fermò e scappò dal lato opposto. Il barbone stanco si accasciò in un
angolo e si mise a pregare; l’americana fermò un taxi e fece chiamare la
polizia. Agli agenti il barbone, abbastanza lucido nonostante i fumi
dell’alcool (ormai evaporati), raccontò di essere stato avvicinato da un uomo
con un berretto da militare e un lungo cappotto, che gli chiese perché facesse
quella vita, perché si era ridotto in quello stato, se non si vergognava, se
era possibile soffrire così e altri discorsi di tal genere. Poi, dopo un “ti
compatisco e ti vorrei aiutare”, cacciò fuori un pugnale da Rambo e avvicinò la
lama alla sua gola. Il resto è noto.
Ovviamente
le indagini si concentrarono tutte intorno a Castro Pretorio, anche se non era
facile indagare nell’ambiente della caserma militare. Vi fu anche un’indagine
militare interna e si risalì a un reduce dell’Afghanistan, con una ferita alla
testa, che aveva cominciato ad accusare dei disturbi mentali da sindrome post-traumatica
da stress.
Ma
ciò che spingeva i cronisti a interrogarsi sui fatti di sangue accaduti e ormai
in parte svelati era la natura del movente. Non poteva trattarsi di mera follia
o almeno tale follia doveva avere una sua logica interna spiegabile alla massa
dei lettori ansiosi.
Un
giorno un barbone rilasciò una testimonianza a un settimanale: «Una notte
anch’io incontrai quell’uomo, mi guardava torvo e diceva: “Ne ho visti tanti
come voi, laggiù. Con le palandrane e le lunghe barbe. Ognuno poteva essere un
uomo-bomba. Voi potreste essere imbottiti di esplosivi. Voi, barboni, siete
come loro, siete dei talebani, qui a casa nostra, io devo difendere me stesso e
la mia Patria, io devo farvi fuori!”».
Il
barbone riuscì a scappare lanciandogli in fronte un barattolo di pelati Cirio.