sabato 25 febbraio 2012

TRE BARBONI MORTI


Era ormai il terzo barbone che veniva trovato morto a Roma negli ultimi due mesi. Per la precisione con la gola recisa con forza da una mano esperta. Stavolta la vittima giaceva davanti a un androne buio e sporco a metà strada tra la stazione Termini e Castro Pretorio. Gli altri due erano stati trovati non molto lontani da lì, uno nei pressi di San Lorenzo, vicino alla mensa Caritas, l’altro verso lo Scalo, accanto a un bidone dell’immondizia. Ormai era chiaro che si trattava di un unico assassino che per oscuri motivi si ostinava a colpire dei senzatetto indifesi. Poche o nessuna traccia venivano lasciate. Ma la scia dei delitti faceva impennare le vendite dei giornali e i cronisti di nera si scervellavano nel seguire le piste più elaborate: estorsione ai danni dei barboni, regolamenti di conti, spacciatori, prostitute, clandestini. La polizia fece un blitz persino nei vagoni abbandonati nello scalo dove dormivano decine di immigrati, per stanare il possibile assassino. Ma si brancolava nel buio.
Dei delitti inspiegabili si occuparono ovviamente svariati programmi televisivi. Un barbone tedesco, giovane e intelligente, divenne persino opinionista fisso, grazie alle sue competenze e si riscattò quindi da un sicuro destino di miseria. Una troupe di un programma più volte si aggirò di notte nei pressi di Termini per intervistare qualche derelitto senza denti: quell’esempio di raffinato realismo sociale si guadagnò un discreto successo di pubblico.
Finché una sera una giovane studentessa americana un po’ brilla non notò qualcosa di strano. In una viuzza nei pressi di piazza dei Cinquecento un barbone con la bottiglia in mano e una coperta addosso sembrava prima parlare e poi discutere con un tizio di corporatura robusta con un cappotto che gli arrivava fino ai piedi. Il barbone sferrò una bottigliata in testa al tizio e cercò goffamente di scappare inciampando quasi nella coperta bucherellata. Il tizio fece per inseguirlo e agguantarlo, nonostante gli colasse del sangue da una tempia, ma la studentessa, testimone del gesto, cacciò fuori un urlo, allora il tizio subito si fermò e scappò dal lato opposto. Il barbone stanco si accasciò in un angolo e si mise a pregare; l’americana fermò un taxi e fece chiamare la polizia. Agli agenti il barbone, abbastanza lucido nonostante i fumi dell’alcool (ormai evaporati), raccontò di essere stato avvicinato da un uomo con un berretto da militare e un lungo cappotto, che gli chiese perché facesse quella vita, perché si era ridotto in quello stato, se non si vergognava, se era possibile soffrire così e altri discorsi di tal genere. Poi, dopo un “ti compatisco e ti vorrei aiutare”, cacciò fuori un pugnale da Rambo e avvicinò la lama alla sua gola. Il resto è noto.
Ovviamente le indagini si concentrarono tutte intorno a Castro Pretorio, anche se non era facile indagare nell’ambiente della caserma militare. Vi fu anche un’indagine militare interna e si risalì a un reduce dell’Afghanistan, con una ferita alla testa, che aveva cominciato ad accusare dei disturbi mentali da sindrome post-traumatica da stress. 
Ma ciò che spingeva i cronisti a interrogarsi sui fatti di sangue accaduti e ormai in parte svelati era la natura del movente. Non poteva trattarsi di mera follia o almeno tale follia doveva avere una sua logica interna spiegabile alla massa dei lettori ansiosi.
Un giorno un barbone rilasciò una testimonianza a un settimanale: «Una notte anch’io incontrai quell’uomo, mi guardava torvo e diceva: “Ne ho visti tanti come voi, laggiù. Con le palandrane e le lunghe barbe. Ognuno poteva essere un uomo-bomba. Voi potreste essere imbottiti di esplosivi. Voi, barboni, siete come loro, siete dei talebani, qui a casa nostra, io devo difendere me stesso e la mia Patria, io devo farvi fuori!”».
Il barbone riuscì a scappare lanciandogli in fronte un barattolo di pelati Cirio.




sabato 11 febbraio 2012

LA VALIGIA (seconda parte)


(Dagli appunti di un'agenda) 
Credevo di aver chiuso i conti con il mio passato, ma questi risuscita più forte di prima e non mi lascia in pace. Non si tratta di rimorso, tutt’altro, io non ho mai sofferto di rimorsi, queste cose accadono solo nei romanzi o in certi film pallosi. Si tratta però di paura: potrebbero ancora darmi la caccia. Avevo ormai messo la testa a posto, la mia attività andava a gonfie vele, non avevo motivo di preoccuparmi; nel tempo mi sono creato delle connivenze, delle amicizie influenti, non è vero che qui sono tutti incorruttibili, bisogna saper scegliere i referenti giusti. Sono dieci anni che mi occupo di tratta delle bianche, per lo più adescate a Buenos Aires e a Montevideo; le mie ragazze col tempo finiscono per amarmi, poiché io so premiare il talento e il sacrificio. Teresa era la mia favorita, è vero, l’ho fatta venire in Spagna ingannandola, come con tutte le altre, l’inizio per lei era stato traumatico, nel Raval, insieme a quelle grasse nigeriane che non ti lasciano mai in pace e agli spacciatori algerini, ma poi si era abituata e si era pure presa una cotta per me. Cominciavo ad apprezzarla (amarla sarebbe una parola troppo grossa). Era un idillio, la puttana e il suo pappone, come due fidanzatini. Ma lei ha avuto l’ardire di sbirciare all’interno di quella valigia, credevo che fosse chiusa a chiave, si vede che ha scoperto la combinazione, sono un cretino, la data di nascita è il codice più scontato che ci sia, è vero, è stata tutta colpa mia. Teresa non doveva aprire quella valigia, che racchiude la mia identità, il mio passato. È colpa mia, sono un conservatore, avrei dovuto bruciarla quella roba. Insomma lei ha frugato lì ed è rimasta sconvolta. Il fatto è che Teresa, nata a Rosario, ha una fottuta amica di trentacinque anni, Beatriz, che le ha fatto una testa così con tutta quella storia degli anni Settanta, la repressione, i cattivi, perché lei è figlia di una desaparecida. Come se i cattivi fossimo stati solo noi! Ne conosco alcuni di idealisti bombaroli che oggi vivono tranquilli sulla Costa Brava! Il fatto è che non ho calcolato l’impatto delle foto. Ne scattavo molte, erano un trofeo per me. Con la mia squadra, un gruppo affiliato alla Triple A, ne abbiamo ammazzati una ventina. In quei tempi il sangue mi scorreva davvero per le vene. Quei fottuti terroristi piazzavano le bombe o sequestravano qualche povero diavolo, ma noi eliminavamo le persone seguendo una rigorosa lista. Eravamo dei professionisti, noi, mica dei guerriglieri! Poi arrivò il golpe del ’76, entrai a far parte delle squadre paramilitari che entravano nelle case di notte, mettendo tutto a soqquadro, ma io volli partecipare alle sedute medievali nei Centri Clandestini di Detenzione, dove s’interrogava e si torturava. Venne il tempo delle scosse elettriche nei seni e nelle vagine. Uno psicanalista l’aveva detto a mia madre che avevo pulsioni sadiche latenti. Se solo avesse saputo la carriera che poi avrei intrapreso! Insomma, Teresa non ha retto alle foto, ha forse letto anche le mie agende; lì annotavo tutto meticolosamente: gli episodi, le tecniche, le nostre pratiche inquisitorie. E quindi voleva denunciarmi. Immaginate il terrore che m’è preso. Si tratta di delitti ancora processabili: qui in Spagna c’è un fottuto giudice che per mania di protagonismo s’è occupato della questione. C’è l’estradizione, e poi chi le sopporta laggiù quelle vecchie bacucche delle madri, che rompono le scatole da trent’anni! Bei tipini i loro figlioli, utopisti del cazzo con i fucili e le bombe a mano. Io non mi pento mica di ciò che ho fatto. Forse a un certo punto abbiamo esagerato, lo ammetto, la situazione ci è sfuggita di mano, ma d’altronde non abbiamo iniziato noi. Teresa, non dovevi sbirciare in quella valigia, tu sei solo una povera puttana, non ti dovevi impicciare di questioni politiche. Non provo rimorso, ma fastidio: lei mi piaceva, era scaltra, non doveva finire così tra noi due. Ora mi toccherà distruggere quella valigia, le foto, le agende, i miei ricordi, la mia vita. E pensare che tutte quelle cianfrusaglie avrebbero potuto far comodo a qualche barboso storico di quegli anni... Ingrati! Ora sarà meglio che smetta, anzi...  bussano alla porta, spero che non siano i Mossos, la galera me la faccio, basta che non tirino fuori quelle vecchie storie. Il passato è così evanescente che più è torbido e più dura nella mente... bussano... sfondano... devo bruciare quella valigia... dov’è finita la mia valigia!!

venerdì 10 febbraio 2012

LA VALIGIA (prima parte)



Il fatto di cronaca

Fasci di sole pomeridiano penetravano dalle ampie vetrate della Biblioteca de Catalunya, ma Edoardo non riusciva ancora a venire a capo della sua tesi di Ph.D in Scienze Politiche sulla Violenza politica della Triple A[1] in Argentina dal 1973 al 1976. Salvò le correzioni effettuate nel file e spense il notebook Vaio, che si portava dietro ormai ovunque. Quella biblioteca-monastero era un ottimo rifugio nel centro di Barcellona, ma quel giorno non riusciva proprio a concludere nulla di buono. Uscì, imboccando il Carrer de l’Hospital, diretto al quartiere del Poble Sec. Frotte di maghrebini si assiepavano attorno a due tizi che se la stavano dando di santa ragione: fece subito capolino la sirena dei Mossos d’Esquadra, di solito molto energici in tali evenienze. Per non avere guai imboccò una viuzza stretta e sporca; negli androni delle case alcune prostitute basse e grasse lanciavano le loro provocazioni verbali. Sbucò accanto alla moschea tranquilla, proseguì, altre prostitute oziose si offrivano per la via. Finalmente uscì da quella suburra quotidiana e si diresse trafelato verso il Poble Sec, subito dopo il vecchio Molino. Si sarebbe cambiato e avrebbe fatto jogging: ciò gli avrebbe di certo chiarito le idee. Dopo qualche minuto si stava già inerpicando su per il parco del Montjuïc, ideale per andare a correre. Giunse presso il belvedere turistico, che dava sulla città e sul porto punteggiato di container colorati. Ma gli piaceva addentrarsi spesso per quei sentieri in mezzo al bosco, che scendono giù finché non s’interrompono in qualche crepaccio. Gli piaceva osservare da lì le navi che attraccavano nel porto e i gabbiani che tracciavano circoli sopra il monte sghignazzando. Ma stavolta la sua attenzione fu attratta da un altro particolare. Giù, nella scarpata, in un leggero avvallamento, sembrava esserci un corpo supino e immobile. Conosceva i sentieri che scendono giù a zig zag tra i massi scoscesi e decise di avventurarsi da quelle parti per capire meglio di che si trattava. Era sempre più evidente che si trovava a poca distanza da un corpo senza vita, il giovane corpo di una ragazza con una camicetta semiaperta e una minigonna lacera. Ma il dettaglio più agghiacciante era costituito dal viso sfigurato dal gran numero dei colpi di pistola ricevuti, forse una decina. Ciò lo impressionò, ma non corse subito alle dovute conclusioni. Avvertì la polizia. Dopo un quarto d’ora, i Mossos erano già lì. Si trattava probabilmente di una prostituta. Un regolamento di conti. Un avvertimento per le altre. Un episodio non così raro a Barcellona. Ma Edoardo non riuscì a convincersi di quella versione. Tuttavia, dopo qualche giorno d’inquietudine pensosa, dovette tornare alla sua tesi. Tutto ora gli appariva più oscuro.


[1] Triple A (AAA): Alleanza Anticomunista Argentina.

martedì 7 febbraio 2012

COME MEMORIZZARE GLI AGGETTIVI DIMOSTRATIVI SPAGNOLI


Adjectivos demostrativos (masculino)
este /este/ questo. QUESTO libro parla della vita del Duca d’ESTE.
ese /ese/ codesto. CODESTO libro narra la storia di un ESEntasse totale scoperto dalla Guardia di Finanza.
aquel /akél/ quel. QUEL libro ha al suo interno unA CHELa di granchio.
(femenino)
esta /esta/ questa. QUESTA merendina dev’essere accompagnata da un buon ESTA the.
esa /esa/ codesta. CODESTA merendina che hai accanto mi ha intossicato lasciandomi ESAnime.
aquella /akéglia/ quella. QUELLA nave da crociera ha La CHIGLIA danneggiata da uno scoglio.
(masculino plural)
estos /estos/ questi. QUESTI ‘bravi ragazzi’ sono stati condannati per ESTOrSione.
esos /esos/ codesti. CODESTI ragazzi che hai accanto, quand’erano nella nave Costa Concordia hanno lanciato l’SOS.
aquellos /akéglios/ quei, quegli. QUEI ragazzi napoletani dicono a un amico greco più piccolo: «Vien’ CCA’, ELIOS!».
(femenino plural)
estas /estas/ queste. «QUESTE ragazzine mi mandano in ESTASi!» esclama Humbert Humbert nel romanzo Lolita.
esas /esas/ codeste. CODESTE mocciose che hai accanto mi hanno ESASperato!
aquellas /akéglias/ quelle. QUELLE ragazze mi hanno detto che RACHEle consulta GLI AStri.

lunedì 6 febbraio 2012

LA MANTIDE DECAPITATA (frammento)


(La terrificante confessione di un giovane serial killer)

Assaporai il primo piacere del crimine per curiosità: strozzai un gattino nato da pochi giorni. Non era stato difficile: solo una breve pressione delle dita su quel collo semi-spelacchiato e fragilissimo. La sensazione che provai quando mi trovai tra le mani la carcassa del micetto fu stranissima: il sangue mi scorreva fervidamente nelle vene; mi sentivo euforico, eccitato: per la prima volta provavo quell’appagante sensazione di sentirmi invincibile; nulla ormai poteva essermi negato, se volevo imporre il mio volere. «Voglio uccidere questo micetto!» avevo pensato, e con estrema facilità avevo realizzato impunemente quel desiderio. Quando andai a gettare il corpicino inerte della creatura nella spazzatura, capii che quello sarebbe stato il primo crimine di una serie. Era come se avessi aperto la porta di una stanza prima segreta e potessi afferrare tra le mani qualsiasi cianfrusaglia sparsa negli angoli, per poi scagliarla al suolo e romperla. Ben presto divenni un sistematico piccolo uccisore: ammazzavo rane e rospi calpestandoli fortissimamente con la suola dei mocassini (ma smisi, poiché i rospi, spiaccicandosi, mi imbrattavano il lembo inferiore dei pantaloni); staccavo le teste alle immote mantidi religiose, che ai miei occhi esperti non riuscivano a mimetizzarsi del tutto nell’erba alta ondeggiante alla brezza; facevo a pezzi i ragni che mi capitavano sotto tiro, amavo staccare le zampette a quelli fini e conficcare spilli nel dorso peloso di quelli più grossi; se riuscivo a catturare un uccellino gli aprivo il becco fino a romperglielo; tagliavo la coda alle lucertole e se ci riuscivo facevo a pezzi con un coltello rubato dalla cucina il loro corpicino scattante. Il desiderio di fare del male non si estingueva mai, ma aumentava dopo ogni atto appena commesso: ero come afferrato da una febbre incontrollabile di schiacciare, colpire, fare a pezzi, squartare, rompere e questa brama voluttuosa cresceva di giorno in giorno.
Arrivò il momento nel quale m’innamorai di una ragazzina, che andava spesso vicino al fiume a raccogliere fiori o semplicemente a passeggiare seguita dal suo gatto nero con la coda tesa: feci amicizia con lei, ma quando cercai di instaurare un rapporto più intimo lei si ritrasse inorridita. Qui devo ammettere che fui afferrato di nuovo da quella sensazione che mi aveva agitato quando avevo compiuto del male: sentivo crescere in me un irresistibile desiderio di dominio. Diedi uno schiaffo alla ragazza, la strattonai e la feci cadere al suolo; la imbavagliai con un fazzoletto per impedirle di gridare; le sue pupille erano dilatate per la paura; quanto più cresceva la paura negli occhi della ragazza tanto più cresceva nel mio cuore la brama voluttuosa di farle del male, di soggiogarla, dominarla con la forza. Lei si divincolava: io la riempii di calci e pugni, sputandole persino nella camicetta di seta bianca, che presto strappai per scoprire i piccoli seni, turgidi come due mele acerbe. Per la prima volta abusai del corpo di una ragazza e fu l’atto più euforizzante che avessi mai compiuto prima d’ora: lei era svenuta a più riprese, io le avevo tolto il fazzoletto, lei destatasi d’un tratto mi minacciò, disse che mi avrebbe denunciato e che sarei finito in un riformatorio, dopo essere stato aspramente punito. Per la prima volta provai paura per le conseguenze dei miei atti: nessuno prima d’ora mi aveva detto una cosa simile dopo che avevo strozzato un gattino o decapitato una mantide. La paura mi soverchiò completamente: afferrai un sasso e colpii la ragazza nel volto, ripetutamente, finché non si mosse più; allora gettai il suo corpo nel fiume e fuggii. Mi sentivo braccato, colpevole, avevo commesso un vero crimine, ora. Ma che ebbrezza nel compiere quell’atto! Che sensazione di potenza assoluta! Eppure ora quanti timori! Quante preoccupazioni! La notte non dormii ripensando a ciò che aveva commesso. Ma desideravo provare di nuovo quella meravigliosa sensazione di togliere la vita a una creatura umana, come un piccolo dio, come un padrone dalla volontà infinita, al di là del bene e del male.

venerdì 3 febbraio 2012

LIBELLULE LUNGO IL FIUME (seconda parte)


Aveva le esili braccia così abbronzate! Sentii l’impulso di correrle accanto e parlarle, confessarle quanto fosse pericoloso starsene lì da sola. Ma credo che me ne andai. Percorsi a ritroso il sentiero. Ma a metà strada, nel terriccio o nella ghiaia, rinvenni un peluche... un tigrotto giallo con un nastro rosa con su scritto Rebecca... era un po’ sporco... era un po’ umido... come se fosse stato ripescato dal fiume e messo lì ad asciugare... ma l’aveste visto! Gli occhi mi fissavano tristi e rabbiosi, un ebete sorriso gli increspava il faccione... doveva essere della ragazzina, ma d’un tratto ebbi paura di restituirglielo... io con la mia barbetta incolta, i miei umidi vestiti indosso e con il ‘suo’ peluche in mano, temevo che sarebbe scappata o avrebbe gridato... e inoltre ora forse era già andata via... sembrava essere trascorsa mezz’ora... e avevo la camicia zuppa di sudore, sembrava acqua e avevo le scarpe con filamenti d’alga. Allora rincasai, ero sporco, mi pulii, ripulii il ‘mio’ peluche. Pensai di tenerlo in camera. Quella sera accadde qualcosa. Posai il peluche sul mio comodino, accanto alle foto dei miei genitori, poi abbassai le cornici e lo posai sopra, aveva ancora le natiche bagnate, lo contemplai prima di coricarmi, aveva il viso rivolto verso il mio guanciale, lo rivolsi verso l’armadio a specchio di fronte al mio letto, ma anche da lì mi guardava, spensi l’abat-jour, mi rigiravo tra le lenzuola, sentivo spine, sudavo, era luglio, percepivo il volicchiare delle zanzare accanto ai padiglioni tesi delle mie orecchie, infine caddi in un deliquio dal quale spesso mi ridestavo in preda a strani sogni, credo, forse, sognai il peluche, la ragazzina, i miei genitori, i giunchi, sognai i giorni di mercato, di nuovo la ragazzina, la tartaruga, il fiume, l’acqua... mi destai, credo che fosse l’alba. Andai in città, vicino al mare. Comprai due o tre giornali... comprai delle riviste pornografiche, amavo ritagliare le foto migliori e appiccicarle dietro le ante del mio armadio a specchi, ecco le mie amanti! ero turbato non avevo dormito granché mi ricordai del peluche era ancora sul comodino dovevo toglierlo era sopra i miei genitori sporco non mi aveva fatto dormire era stato lui lo sento uno strano influsso io credo a questi legami celati tra le cose in quel momento il peluche mi stava telepaticamente esortando a riporlo dove lo avevo trovato l’edicolante mi fissava oh scusi ecco tenga il resto la selva delle riviste la sterpaglia le lame d’acqua fluviale le alghe come capelli di ragazzina certo tutto era legato la ghiaia la ruggine della panchina le natiche il sederino del peluche sopra i miei genitori credo che tornai a casa in fretta non lessi neanche i titoli dei giornali due nazionali e uno locale scorsi con la coda dell’occhio è stata ritrovata nella foce del ma corsi in camera afferrai il peluche uscii di corsa fuori c’erano dei pick-up Toyota forse cacciatori vengono a gruppi nutriti in fin dei conti si divertono a sparare a dei passerotti avanzai trafelato pel sentiero la ghiaia la sterpaglia le serpi la mia madonnina la panchina i giunchi ecco il punto dove lo trovai ora lo rimetto qui e fuggo via lontano ma delle mani pingui e indagatrici si posano sulle mie spalle mi fissano mi fanno domande prendono il peluche mi spintonano mi ammanettano io non so nulla di tutta questa faccenda e la ragazzina mi urlano sì l’ho vista ieri con una tartaruga e dopo non so lei era lì io ero lì titubavo volevo conoscerla ma poi sono tornato indietro dopo mezz’ora nel frattempo non so davvero avrò vagolato per i canneti mi piace molto osservare le libellule che si posano sugli steli ma non m’ascoltano dicono che la ragazza è stata trovata nella foce del fiume annegata piena di lividi ci sono i massi che costellano il fiume irti come lame avrà sbattuto la nuca si sarà tuffata sa le fanno simili scommesse tra amici che c’entro io m’indicano il peluche lo sequestrano dico che abito lì vicino mi perquisiscono la casa un tizio fa cadere accidentalmente i quadri dei miei genitori al suolo e mettono tutto a soqquadro trovano un sasso sotto il lavabo del bagno mi sequestrano i diari l’unico mio patrimonio sempre la stessa frase ripetuta e il cielo era pieno di cirri epatici e mi accusano e viene a trovarmi in cella un avvocato e lui mi dice che mi conviene confessare dice che dicono che sono un uomo strano burbero cattivo ci si appiglierà forse all’esito della perizia psichiatrica io io io non so le ho solo parlato mi sono avvicinato con un sasso aguzzo nella mano sinistra dietro la schiena e le ho detto che una volta avevo sognato d’essere una tartaruga ma che ero con la corazza in giù e mi dondolavo con le rugose zampine annaspanti ed era un incubo e lei e lei ha riso mi ha riso in faccia la zoccoletta e il lucore di quei dentini bianchi come la gonnellina a pieghe verticali e il suo capo chino come la madonnina e quelle braccia esili e le spalle la colpii una due tre volte con il sasso aguzzo nel cranio era leggera la sollevai come una bambola di pezza non pesava nulla e la gettai nel fiume e la gonnellina svolazzava in aria come una colomba e si tuffava come un’orca dal ventre bianchissimo bianchissimo! 


                                                                                                                                  

mercoledì 1 febbraio 2012

LIBELLULE LUNGO IL FIUME (prima parte)


È vero! Sono un uomo malato, ma non sono un assassino! La mia malattia non ha cure. Sì, talora percepisco un mal di stomaco, o di fegato, come il tarlo che erode il mobile della cantina, talaltra un mal di testa, a grappoli... ma questi sono mali minori, fisici. Tuttavia, vi dico, non sono un assassino! Ma non importa. Prima che tutta questa vicenda prendesse il via vivevo da solo. In una casetta di campagna... un po’ fatiscente, vista da fuori, ma se ci entrate vedete che è un’altra storia, le pareti riverniciate, qualche quadretto incorniciato, tutto sommato una casa modesta, d’inverno la sala da pranzo si scalda con una stufa a legna (ho due gatti che si appisolano proprio lì vicino), un letto singolo e grande detto ‘prete’, qualche foto dei miei genitori – ormai non ci sono più – ammucchiata sopra il comodino, poche cose insomma. In salotto una grande scrivania con i libri ammucchiati, scartafacci, sapete, scrivo sempre un diario delle mie giornate. Prima di essere assalito da tutto questo groviglio di circostanze me la cavavo. Due volte alla settimana mi recavo con la Passat sgangherata, carica di merce (paccottiglia indiana) al mercato mattutino. Mio cugino, sapete, è uno che si è costruito una modesta fortuna nell’import-export di prodotti indiani, incensi, profumi, parei di seta: così ha pensato di darmi una mano, visto che non sapevo come guadagnarmi il pane, cedendomi a poco prezzo una delle sue licenze di commercio ambulante per i mercati, insieme a un po’ di merce avanzata, che rivendo a basso costo, con un guadagno modesto, ma bastevole per i miei bisogni. Sapete, quando si è scapoli come me, da soli, senza figli, impicci, non occorre molto denaro. Porto da tre anni lo stesso paio di motose scarpe da trekking. Ho tre pantaloni beige, di cui uno color stabbio, qualche vecchio maglione, non mi occorre altro. Vivo da solo (mi ripeto), ma ho dei fedeli compagni al mio fianco: due gatti e uno splendido cane di grossa taglia, un incrocio tra un husky e un pastore tedesco. Sapete, loro tre sono meglio di tutti gli uomini della terra. Moglie e figli credo che mi renderebbero la vita insopportabile. Mi bastano i miei gatti e il mio cane. Se ci penso vengo colto dal più acuto sconforto! Dove saranno? Ora che mi trovo in custodia cautelare nel carcere provinciale, i gatti ho dovuto lasciarli fuori. Spero che trovino del cibo. Quanto al cane, l’ho dovuto affidare ad un cacciatore. A un maledetto cacciatore! Ma era l’unico tizio che mi capitava di vedere più spesso. La mia casa è molto isolata, a due passi da un fiume, tutto cinto da canneti e boscaglia: ci vanno a cacciare tordi e allodole. Ho dovuto regalare il mio cane a uno di loro! Se riesco ad uscire di qui... ma credo che non ne uscirò... c’è come una maledizione, un fatale influsso attorno a questi fatti che sarò ora costretto a narrare. Non amo molto raccontare delle storie. In tanti anni non mi è mai accaduto nulla di rilevante. So solo che quel giorno accadde qualcosa, qualcosa che non saprei ben spiegare, poiché non so nemmeno se c’è una possibile spiegazione. So solo che io non l’ho uccisa. Io non ricordo affatto di aver fatto una cosa simile. Ho una buona memoria: ricordo le traiettorie degli uccelli nel mio cortile a distanza di settimane! È tutta colpa di quel peluche... di quel tigrotto. Vi dicevo, io ho sempre avuto una vita regolare. La mattina mi alzavo molto presto, tiravo fuori il mio cane prima di fare colazione; un cacciatore che passasse di lì poteva perfino regolare il suo orologio vedendomi uscire di casa: le sette meno un quarto. Due volte alla settimana andavo in città per fare la spesa; il resto del tempo lo trascorrevo a rileggere qualche libro tarmato o a scrivere i miei diari... io so solo che quel giorno colsi dei segni diversi dal solito. Era luglio. Spirava una brezza di scirocco, mitigata dall’aria marina. Sapete, il mare non è poi così lontano da casa. Staccai Sissi dalla catena, m’incamminai per il sentiero che conduceva al fiume: arrivavo sempre fino alla biforcazione, dove c’era una madonnina di gesso in una nicchia con qualche fiore rinsecchito; mi piaceva molto il suo viso reclinato e pudico; non sono mai stato un credente ma ciò non toglie che io amassi quella statuina, quell’immagine... che io l’amassi come mia madre... accanto c’era una panchina erosa dalla ruggine, dove anni prima si sedeva un vecchio reduce di guerra, se ne stava lì tutto il giorno, fino al tramonto, con i suoi occhiali da sole, accarezzandosi la barbetta untuosa, ma curata, simile a quella di mio padre... per me lui era come un padre... mio padre e mia madre mi lasciarono presto, cattivi! Cattivi! Farmi piombare all’improvviso in così tante difficoltà! Tutto sulle mie spalle! Io... io non ricordo quasi più neanche come morirono... insomma io col mio cane arrivavo fino alla panchina: quel giorno, non so perché, proseguii. M’accorsi dei rumori quando cessarono. Cessò il frinire delle cicale, si attutì il fruscio della sterpaglia e cessò d’un tratto lo scricchiolio vertebrale dei giunchi. Il fiume era vicino. Lo sentivo. Udivo solo il fiume, ora. E fu in quel momento che la vidi. Al di là della sterpaglia, dei canneti, sul terriccio rinsecchito, arido, presso la riva sassosa del fiume, camminava una ragazzina, forse di quattordici, quindici anni. Indossava una gonnella bianca a pieghe verticali, che attrasse la mia attenzione, perché sembrava nuova, o appena lavata. Notai che era inginocchiata, come un cagnolino: giocava con una tartaruga. Sono rare le tartarughe da queste parti! Sono altrettanto rare le ragazzine! Ci vengono solo pochi pescatori e cacciatori. Perché era lì da sola? Perché mi turbava?