lunedì 23 aprile 2012

LE CARCERI TEATRALI (Cap. I)


Capitolo I

Tempesta. Naufragio. Isola


(Il manoscritto è mutilo della prima pagina: si presume che l’autore parlasse brevemente di sé, delle sue origini e delle precedenti rotte commerciali).

Basterà dire che la mattina del diciannove marzo 184... la goletta nella quale mi trovavo salpò dalle Canarie diretta all’arcipelago di *, meta di fruttuosi commerci. La stiva traboccava di casse ricolme di merci e varia paccottiglia. Salii sul ponte, a poppa, dove pendeva una gabbietta di giunchi, che imprigionava una cicala, considerata dall’equipaggio di buon augurio: dal momento della partenza non levava più il suo canto al cielo.
Aspirai a pieni polmoni la brezza salmastra, mentre spruzzaglie di schiuma mi schiaffeggiavano il volto. Il sole ormai alto, riflesso dagli specchi delle onde, sembrava arridere al mio destino, ma ciurme di sinistri gabbiani sghignazzavano controvento, sfiorando talora le teste dei giovani marinai, dalle schiene ricurve, intenti a pulire il pontile della nave. I venti a elevate altezze sgombravano il cielo lucido, facendo accavallare una sull’altra le nubi lontane. La chiglia nera feriva il mare come un bisturi la carne viva, lasciando dietro la poppa una bianca cicatrice di spume che gorgogliavano. Volsi gli occhi alla quieta insenatura che ci accolse, alla giogaia scura delle alture, e alle case chiare come armenti in fuga. Contemplai i pennacchi di fumo lontani e la banderuola di latta a forma di gallo, che roteava lentamente in cima a una torre, lanciando barbagli, sola al sole. Il campanile della chiesa additava il cielo blu, come un pastore che indichi una cometa notturna. L’occhio vigile del faro si restringeva sempre più, finché tutto quanto non divenne un puntino nel mare. Colto da un leggero turbamento tornai in cabina.
Navigammo per due settimane, sospinti da un vento gagliardo, che cessò la mattina del quindicesimo giorno, insolitamente calda. Il sole sorse rossastro, come un occhio insanguinato, assorellato a una profondissima quiete; neri nembi lampeggianti si profilarono all’orizzonte, come schiere d’eserciti prima d’una battaglia. Udimmo un mesto mormorio di tuoni, simile all’improvviso rotolio d’un carro per un selciato sconnesso. Il vento si levò fortissimo, mentre la nave scivolava obliqua tra le onde sempre più gonfie. Un turbine d’acqua ci assalì, piegando un albero come un fuscello e lacerando le vele schioccanti: travolse la poppa e mandò in pezzi il timone. Un altro maroso, dal dorso loricato di spume, assalì la prua, scagliando due uomini in mare. Alcuni marinai calarono una scialuppa, ma la nave inclinava verso un lato sempre più pericolosamente, tant’è che decisi di tuffarmi: la corrente mi trascinò lontano con inopinata rapidità, come accade nei sogni. M’aggrappai a un ceppo dell’albero che era stato prima spezzato: vagava tra gli stracci d’alghe imputridite, che talora mi sfioravano il viso (eravamo quindi già penetrati nel Mar dei Sargassi?). Da quella distanza scorsi una gran falla, simile a un occhio, che s’apriva nella nera carena lucente di catrame. Udii uno schianto, che sconquassò la goletta. Il carcame rimase a galla, cominciando a vorticare tra le ondate, che cozzavano tra di loro. Vidi forse cinque uomini in mare: tre si aggrappavano a travi, pennoni, casse e barili, che dondolavano nell’acqua, ipnoticamente, come una nenia notturna sussurrata dalla nonna; gli altri due affogarono esausti. Udii urla, lamenti, e infine silenzio. Intanto una scialuppa beccheggiava verso di me, l’abbrancai da un lato: era integra, era vuota. I resti della nave roteavano giù nel gorgo sempre più veloci, come il gallo di latta schiaffeggiato dalla brezza. E vidi d’un tratto la poppa drizzarsi in alto, rimanendo immota come una lapide. Poi s’inabissò rapidamente.
Il fortunale, rapido com’era giunto, smorzò la sua forza: ero solo nel deserto del mare. Nella scialuppa trovai un barilotto d’acqua potabile, una cassa con biscotti umidi, un’altra con un tocco di manzo, flaconcini di medicamenti e un coltello a serramanico. Raccolsi dall’acqua un brandello di vela, per coprirmi di notte dal freddo e di giorno dall’arsura, moltiplicata dagli specchi delle onde. Sei giorni e sei notti andai alla deriva. La mattina del settimo giorno scorsi una lunga canoa scivolare verso di me. Era stata ottenuta da un gigantesco tronco d’albero. Al suo interno v’erano tre uomini, seminudi e forse meticci. Uno di loro abbandonò i remi e s’alzò, impugnando un oggetto oblungo e sottile, che mi parve una canna di bambù. Giunta la canoa molto vicina, l’uomo imboccò la cerbottana e vi soffiò deciso. In quell’attimo vidi le sue guance gonfiarsi e svuotarsi dell’aria, come una ranocchia immota nella ninfea dello stagno, e scorsi il pendaglio di metallo, a forma di serpente, oscillare e battere contro il petto, lanciando riflessi. Sentii una fitta nel braccio destro, come la puntura d’un ago, e perdetti conoscenza. Sognai un’enorme serpe marina che strisciava a fior d’acqua. D’un tratto fuoriusciva dai flutti e s’avvinghiava al mio corpo in sette spire; percepivo la frigida elasticità della guaina, ricoperta di parassiti: il rettile mi stava stritolava come un pulcino carpito dal nido. Al risveglio, scorsi l’isola.

Quella parte di costa, che potevo ammirare, poggiava s’uno zoccolo roccioso, dalle pareti scagliose e irte, ma non molto alte; qua e là vaneggiavano delle grotte, dove s’incuneava l’acqua marina, densa di riflessi; tre faraglioni erano a guardia dell’isola, rivestiti d’eriche e ginestre. Un’altura s’ergeva ripidissima da un lato e digradava dolcemente dall’altro, terminando in una baia, l’unico anfratto abbordabile. Gradualmente m’accorsi che una bianca città turrita copriva metà dell’isola, come una colata lavica: digradava verso l’insenatura, formando un vasto anfiteatro d’edifici, dall’acustica perfetta: potevo udire levarsi come vapori gli sfumati clamori dei suoi traffici. Dietro quella che mi parve la magione o fortezza d’un Re, eretta nell’imo dell’isola (poi avrei capito il perché), sorgeva il porticciolo, presso il quale erano amarrate numerosissime canoe, simili a tante matite colorate. Le alghe azzurr’oro dei fondali, visibili nell’acqua mera, accarezzavano le loro carene, come dita maliarde di ragazzine. Fosforescenti meduse morte rilucevano nelle scogliere. Ma in quell’attimo, quando la città, con tutte le sue torri additanti il cielo, mi parve una faretra colma di frecce pronte a trafiggermi, subendo ancora l’effetto del narcotico prima iniettatomi, caddi preda di un invincibile torpore.

Nessun commento:

Posta un commento