Capitolo I
Tempesta. Naufragio. Isola
(Il
manoscritto è mutilo della prima pagina: si presume che l’autore parlasse
brevemente di sé, delle sue origini e delle precedenti rotte commerciali).
Basterà
dire che la mattina del diciannove marzo 184... la goletta nella quale mi
trovavo salpò dalle Canarie diretta all’arcipelago di *, meta di fruttuosi
commerci. La stiva traboccava di casse ricolme di merci e varia paccottiglia.
Salii sul ponte, a poppa, dove pendeva una gabbietta di giunchi, che
imprigionava una cicala, considerata dall’equipaggio di buon augurio: dal
momento della partenza non levava più il suo canto al cielo.
Aspirai a pieni polmoni la brezza salmastra,
mentre spruzzaglie di schiuma mi schiaffeggiavano il volto. Il sole ormai alto,
riflesso dagli specchi delle onde, sembrava arridere al mio destino, ma ciurme
di sinistri gabbiani sghignazzavano controvento, sfiorando talora le teste dei
giovani marinai, dalle schiene ricurve, intenti a pulire il pontile della nave.
I venti a elevate altezze sgombravano il cielo lucido, facendo accavallare una
sull’altra le nubi lontane. La chiglia nera feriva il mare come un bisturi la
carne viva, lasciando dietro la poppa una bianca cicatrice di spume che
gorgogliavano. Volsi gli occhi alla quieta insenatura che ci accolse, alla
giogaia scura delle alture, e alle case chiare come armenti in fuga. Contemplai
i pennacchi di fumo lontani e la banderuola di latta a forma di gallo, che
roteava lentamente in cima a una torre, lanciando barbagli, sola al sole. Il campanile
della chiesa additava il cielo blu, come un pastore che indichi una cometa
notturna. L’occhio vigile del faro si restringeva sempre più, finché tutto
quanto non divenne un puntino nel mare. Colto da un leggero turbamento tornai
in cabina.
Navigammo per due settimane, sospinti da un vento
gagliardo, che cessò la mattina del quindicesimo giorno, insolitamente calda.
Il sole sorse rossastro, come un occhio insanguinato, assorellato a una
profondissima quiete; neri nembi lampeggianti si profilarono all’orizzonte,
come schiere d’eserciti prima d’una battaglia. Udimmo un mesto mormorio di
tuoni, simile all’improvviso rotolio d’un carro per un selciato sconnesso. Il
vento si levò fortissimo, mentre la nave scivolava obliqua tra le onde sempre
più gonfie. Un turbine d’acqua ci assalì, piegando un albero come un fuscello e
lacerando le vele schioccanti: travolse la poppa e mandò in pezzi il timone. Un
altro maroso, dal dorso loricato di spume, assalì la prua, scagliando due
uomini in mare. Alcuni marinai calarono una scialuppa, ma la nave inclinava
verso un lato sempre più pericolosamente, tant’è che decisi di tuffarmi: la
corrente mi trascinò lontano con inopinata rapidità, come accade nei sogni.
M’aggrappai a un ceppo dell’albero che era stato prima spezzato: vagava tra gli
stracci d’alghe imputridite, che talora mi sfioravano il viso (eravamo quindi
già penetrati nel Mar dei Sargassi?). Da quella distanza scorsi una gran falla,
simile a un occhio, che s’apriva nella nera carena lucente di catrame. Udii uno
schianto, che sconquassò la goletta. Il carcame rimase a galla, cominciando a
vorticare tra le ondate, che cozzavano tra di loro. Vidi forse cinque uomini in
mare: tre si aggrappavano a travi, pennoni, casse e barili, che dondolavano
nell’acqua, ipnoticamente, come una nenia notturna sussurrata dalla nonna; gli
altri due affogarono esausti. Udii urla, lamenti, e infine silenzio. Intanto
una scialuppa beccheggiava verso di me, l’abbrancai da un lato: era integra,
era vuota. I resti della nave roteavano giù nel gorgo sempre più veloci, come
il gallo di latta schiaffeggiato dalla brezza. E vidi d’un tratto la poppa
drizzarsi in alto, rimanendo immota come una lapide. Poi s’inabissò
rapidamente.
Il fortunale, rapido com’era giunto, smorzò la sua
forza: ero solo nel deserto del mare. Nella scialuppa trovai un barilotto
d’acqua potabile, una cassa con biscotti umidi, un’altra con un tocco di manzo,
flaconcini di medicamenti e un coltello a serramanico. Raccolsi dall’acqua un
brandello di vela, per coprirmi di notte dal freddo e di giorno dall’arsura,
moltiplicata dagli specchi delle onde. Sei giorni e sei notti andai alla
deriva. La mattina del settimo giorno scorsi una lunga canoa scivolare verso di me. Era stata ottenuta da un
gigantesco tronco d’albero. Al suo interno v’erano tre uomini, seminudi e forse meticci. Uno di loro abbandonò i remi e s’alzò,
impugnando un oggetto oblungo e sottile, che mi parve una canna di bambù.
Giunta la canoa molto vicina, l’uomo imboccò la cerbottana e vi soffiò deciso.
In quell’attimo vidi le sue guance gonfiarsi e svuotarsi dell’aria, come una
ranocchia immota nella ninfea dello stagno, e scorsi il pendaglio di metallo, a
forma di serpente, oscillare e battere contro il petto, lanciando riflessi.
Sentii una fitta nel braccio destro, come la puntura d’un ago, e perdetti
conoscenza. Sognai un’enorme serpe marina che strisciava a fior d’acqua. D’un
tratto fuoriusciva dai flutti e s’avvinghiava al mio corpo in sette spire;
percepivo la frigida elasticità della guaina, ricoperta di parassiti: il
rettile mi stava stritolava come un pulcino carpito dal nido. Al risveglio,
scorsi l’isola.
Quella parte di costa, che potevo ammirare,
poggiava s’uno zoccolo roccioso, dalle pareti scagliose e irte, ma non molto
alte; qua e là vaneggiavano delle grotte, dove s’incuneava l’acqua marina,
densa di riflessi; tre faraglioni erano a guardia dell’isola, rivestiti
d’eriche e ginestre. Un’altura s’ergeva ripidissima da un lato e digradava
dolcemente dall’altro, terminando in una baia, l’unico anfratto abbordabile.
Gradualmente m’accorsi che una bianca città turrita copriva metà dell’isola,
come una colata lavica: digradava verso l’insenatura, formando un vasto
anfiteatro d’edifici, dall’acustica perfetta: potevo udire levarsi come vapori
gli sfumati clamori dei suoi traffici. Dietro quella che mi parve la magione o
fortezza d’un Re, eretta nell’imo dell’isola (poi avrei capito il perché),
sorgeva il porticciolo, presso il quale erano amarrate numerosissime canoe,
simili a tante matite colorate. Le alghe azzurr’oro dei fondali, visibili
nell’acqua mera, accarezzavano le loro carene, come dita maliarde di ragazzine.
Fosforescenti meduse morte rilucevano nelle scogliere. Ma in quell’attimo,
quando la città, con tutte le sue torri additanti il cielo, mi parve una faretra
colma di frecce pronte a trafiggermi, subendo ancora l’effetto del narcotico
prima iniettatomi, caddi preda di un invincibile torpore.
Nessun commento:
Posta un commento