lunedì 30 aprile 2012

UNA BELLISSIMA GIORNATA: Il quaderno di un nevrastenico (Cap. I)


Oggi è stata una bellissima giornata, forse la più bella di tutta la mia triste e tediosa vita. Erano anni che non impugnavo più la penna per mettere nero su bianco e dunque immortalare le piccole e significative impressioni captate nell’arco del dì appena trascorso.
Da un anno mi sono separato da Luana; appena una settimana fa ho rivisto mia figlia Erica, affidata alla madre: con lei ho trascorso un intero pomeriggio. Erica ha ormai dodici anni, è una bimba sveglia, vivace come una trottola; abbiamo passeggiato per il centro e fatto un po’ di shopping: le ho acquistato un maglione di lana marrone, che aderiva al suo corpicino, un cd di musica classica (Bach, Concerti Brandeburghesi), che spero apprezzerà, e un libro (Le avventure di Huckleberry Finn di Mark Twain), che spero non abbandoni in un angolo della cameretta, dando la precedenza a tutte quelle riviste femminili di moda e attualità che la madre le rifila. Con Luana ci scambiamo ormai pochissime parole di finta cortesia (mai scandali di fronte a Erica, ci siamo detti), ma nostra figlia lo percepisce benissimo che c’è un’insormontabile parete invisibile tra sua madre e me, che c’impedisce di comunicare.
Com’è tutto finito miseramente! Non ho ancora trovato il coraggio di tentare un serio approccio con altre donne, per ora. Mi limito ad andare una volta alla settimana da una giovane, cortese e cinica prostituta, che riceve in casa a Poggibonsi. 
Mi sembra di essere tornato indietro di almeno quindici anni, quando attendevo ai miei solitari studi all’università, speranzoso di un futuro di gloria. Da giovani, colmi di illusione, si guarda al futuro; trascorsi alcuni anni, in preda alla disillusione, si volge lo sguardo al passato. Entrambi sono atteggiamenti sbagliati. Solo oggi ho finalmente compreso che occorre fissare l’attenzione nel presente, che lento diviene, trascorrendo dall’immediato passato al repentino futuro.
Purtroppo l’ho capito tardi. Ora sto già trasgredendo al nuovo comandamento, poiché tento di tracciare la breve cronaca di questa gloriosa giornata.
Stamani, appena è suonata la sveglia, ho capito che non sarei andato al lavoro; ho telefonato a Luigi e mi sono dato per malato: ho notato una certa incredulità nella sua voce. Sono infatti dieci anni che non mi assento neanche una volta dal mio impiego. Prima o poi doveva accadere! “Ho deciso, oggi devo riprendermi il mio tempo,” ho pensato “mi spetta di diritto, è un dono da carpire. Oggi sarà una meravigliosa giornata!”.
Con questo squillante pensiero rintoccante nel cervello, mi sono levato dal letto con un guizzo da delfino, ho scaldato l’acqua per il caffé lungo (solubile, come piace a me), ho intiepidito il latte, l’ho versato nella ciotola ricolma di croccanti corn-flakes e mi sono apparecchiato a pregustare la lauta colazione. Nessun’ansia di arrivare tardi in ufficio mi turbava: provavo solo amena serenità nel godere oziosamente di me stesso. Poi mi sono fumato la prima sigaretta della giornata con evidente piacere, affacciandomi sul balcone. Il sole già indorava le pareti dei palazzi di fronte, enormi scatole stipate di appartamentini, con uguali finestre e balconi. Dei rondoni piroettavano nel cielo stridendo, facendo la spola tra i rami degli alti platani e i tetti del palazzo di fronte, già popolati da frotte di colombi, lì fermi come guardie di vedetta.
Una delle vecchie signore dirimpetto innaffiava le sue begonie; un’altra si affacciava sul balcone a tastare i panni messi ad asciugare il giorno prima, con il bianco cagnolino shi-tzu trattenuto in un braccio. Uno studente universitario, chino dietro la sua scrivania (vicino all’ampia finestra dalle traslucide vetrate) si apprestava a compulsare il ponderoso tomo di chissà quale incombente esame. Ma d’un tratto ebbi la fortuna di contemplare una giovane studentessa universitaria affacciarsi al balcone per fumare la propria sigaretta, di profilo, la crocchia bionda dei capelli rattenuta da un fermaglio, l’alta, pallida e nobile fronte, il nasino piccolo e dalla punta leggermente all’insù, gli zigomi alti, il seno celato da una maglia di lana blu; eloquentemente silenziosa, come un quadro di Hopper.
Non l’avevo mai veduta prima affacciarsi a quell’ora, il suo profilo baciato dal sole mattutino, i suoi capelli accarezzati dalla leggera brezza fresca. Quante contemplazioni m’ero finora perso per colpa del tran-tran quotidiano! Neanche la domenica mattina l’avevo veduta, destandosi lei molto tardi, reduce da chissà quali gioiose feste.
Ero davvero felice. Diedi una breve pulitina al mio appartamentino da scapolo. Riempii le tre piccole scatole dei rifiuti: organici, carta, lattine insieme a vetro e plastica; un motivetto musicale mi ronzava nelle orecchie, come un mormorio d’arnie nella canicola. Decisi anche di cambiarmi, al posto del solito grigio abito, con tanto di cravatta stinta e boriosa, indossai jeans, una camicia bianca sportiva, un maglioncino verde-chiaro e scarpe da tennis. Indossai poi un giubbetto sportivo e uscii con le tre scatole dei rifiuti in mano fischiettando. Era rischioso uscire a quell’ora: qualcuno poteva vedermi, interrogarsi, e di certo la notizia sarebbe giunta alle orecchie del mio principale. “Allora non è vero che è malato! Ma cosa gli è accaduto? È forse impazzito? Non è mai capitato che si assentasse dal lavoro. Un simile comportamento da parte sua è inaccettabile!”: questo e altro avrebbe rimuginato il mio principale, ma sinceramente in quel momento non me ne importava nulla, quello era il mio giorno, avrei recuperato in un baleno il tempo perduto dietro tutte le inutili scartoffie dell’ufficio. Niente più carte da ricopiare, moduli da compilare, manuali da leggere, pratiche da sbrigare, al diavolo tutto quanto! Anche se rischiavo il posto di lavoro non me ne importava. Oggi avrei oziato!
Svuotai le scatole dei rifiuti abbandonandole poi ai piedi dei tre cassonetti (giallo, verde, arancione).
Le foglie erano gialle, molte crocchiavano riarse ai miei passi. Scorsi due ragazzine bighellonare allegre lungo la strada. Avranno avuto tra i quindici e i sedici anni, una dai capelli rossi, l’altra neri. Quando furono abbastanza vicine rivolsi loro la parola.
«Non siete andate oggi a scuola?» chiesi spudoratamente. Le due fanciulle si scambiarono un’occhiata preoccupata. La rossa si fece coraggio e rispose:
«No, signore, ma i nostri genitori non lo sanno, la prego, mantenga il segreto...»
«E dove state andando?»
«Nel pub qua vicino.»
«Ma è aperto di mattina?»
«Ufficialmente è aperta solo la sala prospiciente l’ingresso, ma nel salone nascosto nel retro il pub è pieno di studenti che marinano la scuola.»
«Fatemi strada, che vengo con voi.»
«D’accordo...»
«Potrei sapere prima i vostri nomi?»
La rossa, come al solito, si prese la briga di rispondere: «Io sono Sandra e lei è Mila!»
«Molto piacere, il mio nome è Alessandro!»
Le seguii con il sorriso stampato nel viso; confabulavano tra loro ridacchiando e ogni tanto voltandosi, probabilmente una simile cosa non gli era mai capitata; c’è sempre una prima volta; almeno anch’io mi sarei nascosto per un po’ in attesa di decidere cos’altro fare nell’arco di quella meravigliosa giornata.
Sorbii vodka e succo d’arancia, spaparanzato dietro un tavolo dalla tovaglia verde, in penombra, chiacchierando con le due ragazzine molto incuriosite dal mio atteggiamento. In realtà c’erano solo due o tre studenti nel retro, dove si estendeva la “sala segreta”, simile alla stiva d’una nave. Uno addirittura se la dormiva della grossa con il viso poggiato s’un tavolo accanto a un enorme calice di birra, in condizioni peggiori del più incallito bevitore d’assenzio di fine Ottocento. Altri due confabulavano fumando, non prestando minimamente attenzione a noi.
«Marinate spesso la scuola?» cominciai a chiedere, disinibendomi sempre di più. Sandra si fece carico di rispondere al mio affettuoso interrogatorio, sorbendo ogni tanto la sua birra.
«Questa è la seconda volta che lo facciamo, signor Alessandro!»
«Frena! Frena! Non chiamarmi più “signor Alessandro”! Chiamami piuttosto Alex!»
«Ok, Alex!»
«Ma, voglio dire, ci state prendendo gusto?»
«Un po’ sì. La scuola è una noia mortale e oggi la prof. d’inglese interrogava.»
«Concordo con voi, anch’io odiavo andare a scuola, in realtà sono sempre stato un autodidatta, tutto quello che ho imparato l’ho imparato da solo. Comunque anch’io oggi ho marinato il lavoro!»
«Davvero, come mai?»
«Non lo so, non c’è un motivo, o almeno non mi è ancora ben chiaro, si tratta per lo più d’un’oscura sensazione, mi sono svegliato con l’idea che oggi è il giorno, il mio giorno, il giorno più lungo, forse quello decisivo. È il mio primo giorno autentico e forse l’ultimo!»
«È molto strano quello che dici, Alex!»
«Concordo, è strano, vago, confuso, forse sto solo impazzendo! Ha! Ha! Ma sai cosa? Finalmente non m’importa più di quello che pensa la gente di me. Ho finito di preoccuparmi.»
«Ma... sei sposato?»
«Felicemente divorziato: ho anche una figlia di dodici anni, che però vedo di rado. Ma non parliamo ora di cose tristi. Parliamo piuttosto di voi. Avete il ragazzo?»
A questa mia impudente domanda s’imporporarono pudicamente.
«Io no» rispose Sandra, «invece Mila si è da poco lasciata!»
«Davvero? E perché ti sei lasciata col tuo boyfriend, Mila?»
«Mi... mi trattava male!»
«Che mascalzone. Come fa a trattar male un angioletto come te? Che canaglia! Vedrai che se lo incontriamo gliene dico quattro. Gliel’insegno io a maltrattare le ragazzine!»
A queste mie minacce Sandra e Mila si spaventarono un po’.
«Alex... sei sicuro di stare bene?» chiese Sandra titubante.
«Mai stato meglio in vita mia! Sapete una cosa? Stamattina finalmente dopo tanti anni mi sono innamorato!»
«Ah sì? E di chi?»
«Di una meravigliosa studentessa universitaria che abita proprio di fronte a casa mia. Mi è apparsa con la sigaretta tra le dita, come una Dea, un’epifania!»
«E le rivelerà il suo amore?»
«Forse che si forse che no. Ho già combinato troppi guai nella mia vita!»
E qui mi rabbuiai all’improvviso, come i tardi pomeriggi invernali; ripresi il controllo su di me; scolai il cocktail; mi congedai gentilmente dalle due fanciulle, passai al bancone per pagare anche le loro birre e m’involai come un piccolo rondinino ferito dal nido.

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