mercoledì 1 febbraio 2012

LIBELLULE LUNGO IL FIUME (prima parte)


È vero! Sono un uomo malato, ma non sono un assassino! La mia malattia non ha cure. Sì, talora percepisco un mal di stomaco, o di fegato, come il tarlo che erode il mobile della cantina, talaltra un mal di testa, a grappoli... ma questi sono mali minori, fisici. Tuttavia, vi dico, non sono un assassino! Ma non importa. Prima che tutta questa vicenda prendesse il via vivevo da solo. In una casetta di campagna... un po’ fatiscente, vista da fuori, ma se ci entrate vedete che è un’altra storia, le pareti riverniciate, qualche quadretto incorniciato, tutto sommato una casa modesta, d’inverno la sala da pranzo si scalda con una stufa a legna (ho due gatti che si appisolano proprio lì vicino), un letto singolo e grande detto ‘prete’, qualche foto dei miei genitori – ormai non ci sono più – ammucchiata sopra il comodino, poche cose insomma. In salotto una grande scrivania con i libri ammucchiati, scartafacci, sapete, scrivo sempre un diario delle mie giornate. Prima di essere assalito da tutto questo groviglio di circostanze me la cavavo. Due volte alla settimana mi recavo con la Passat sgangherata, carica di merce (paccottiglia indiana) al mercato mattutino. Mio cugino, sapete, è uno che si è costruito una modesta fortuna nell’import-export di prodotti indiani, incensi, profumi, parei di seta: così ha pensato di darmi una mano, visto che non sapevo come guadagnarmi il pane, cedendomi a poco prezzo una delle sue licenze di commercio ambulante per i mercati, insieme a un po’ di merce avanzata, che rivendo a basso costo, con un guadagno modesto, ma bastevole per i miei bisogni. Sapete, quando si è scapoli come me, da soli, senza figli, impicci, non occorre molto denaro. Porto da tre anni lo stesso paio di motose scarpe da trekking. Ho tre pantaloni beige, di cui uno color stabbio, qualche vecchio maglione, non mi occorre altro. Vivo da solo (mi ripeto), ma ho dei fedeli compagni al mio fianco: due gatti e uno splendido cane di grossa taglia, un incrocio tra un husky e un pastore tedesco. Sapete, loro tre sono meglio di tutti gli uomini della terra. Moglie e figli credo che mi renderebbero la vita insopportabile. Mi bastano i miei gatti e il mio cane. Se ci penso vengo colto dal più acuto sconforto! Dove saranno? Ora che mi trovo in custodia cautelare nel carcere provinciale, i gatti ho dovuto lasciarli fuori. Spero che trovino del cibo. Quanto al cane, l’ho dovuto affidare ad un cacciatore. A un maledetto cacciatore! Ma era l’unico tizio che mi capitava di vedere più spesso. La mia casa è molto isolata, a due passi da un fiume, tutto cinto da canneti e boscaglia: ci vanno a cacciare tordi e allodole. Ho dovuto regalare il mio cane a uno di loro! Se riesco ad uscire di qui... ma credo che non ne uscirò... c’è come una maledizione, un fatale influsso attorno a questi fatti che sarò ora costretto a narrare. Non amo molto raccontare delle storie. In tanti anni non mi è mai accaduto nulla di rilevante. So solo che quel giorno accadde qualcosa, qualcosa che non saprei ben spiegare, poiché non so nemmeno se c’è una possibile spiegazione. So solo che io non l’ho uccisa. Io non ricordo affatto di aver fatto una cosa simile. Ho una buona memoria: ricordo le traiettorie degli uccelli nel mio cortile a distanza di settimane! È tutta colpa di quel peluche... di quel tigrotto. Vi dicevo, io ho sempre avuto una vita regolare. La mattina mi alzavo molto presto, tiravo fuori il mio cane prima di fare colazione; un cacciatore che passasse di lì poteva perfino regolare il suo orologio vedendomi uscire di casa: le sette meno un quarto. Due volte alla settimana andavo in città per fare la spesa; il resto del tempo lo trascorrevo a rileggere qualche libro tarmato o a scrivere i miei diari... io so solo che quel giorno colsi dei segni diversi dal solito. Era luglio. Spirava una brezza di scirocco, mitigata dall’aria marina. Sapete, il mare non è poi così lontano da casa. Staccai Sissi dalla catena, m’incamminai per il sentiero che conduceva al fiume: arrivavo sempre fino alla biforcazione, dove c’era una madonnina di gesso in una nicchia con qualche fiore rinsecchito; mi piaceva molto il suo viso reclinato e pudico; non sono mai stato un credente ma ciò non toglie che io amassi quella statuina, quell’immagine... che io l’amassi come mia madre... accanto c’era una panchina erosa dalla ruggine, dove anni prima si sedeva un vecchio reduce di guerra, se ne stava lì tutto il giorno, fino al tramonto, con i suoi occhiali da sole, accarezzandosi la barbetta untuosa, ma curata, simile a quella di mio padre... per me lui era come un padre... mio padre e mia madre mi lasciarono presto, cattivi! Cattivi! Farmi piombare all’improvviso in così tante difficoltà! Tutto sulle mie spalle! Io... io non ricordo quasi più neanche come morirono... insomma io col mio cane arrivavo fino alla panchina: quel giorno, non so perché, proseguii. M’accorsi dei rumori quando cessarono. Cessò il frinire delle cicale, si attutì il fruscio della sterpaglia e cessò d’un tratto lo scricchiolio vertebrale dei giunchi. Il fiume era vicino. Lo sentivo. Udivo solo il fiume, ora. E fu in quel momento che la vidi. Al di là della sterpaglia, dei canneti, sul terriccio rinsecchito, arido, presso la riva sassosa del fiume, camminava una ragazzina, forse di quattordici, quindici anni. Indossava una gonnella bianca a pieghe verticali, che attrasse la mia attenzione, perché sembrava nuova, o appena lavata. Notai che era inginocchiata, come un cagnolino: giocava con una tartaruga. Sono rare le tartarughe da queste parti! Sono altrettanto rare le ragazzine! Ci vengono solo pochi pescatori e cacciatori. Perché era lì da sola? Perché mi turbava?

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