È vero! Sono un uomo malato, ma non sono un assassino! La mia
malattia non ha cure. Sì, talora percepisco un mal di stomaco, o di fegato,
come il tarlo che erode il mobile della cantina, talaltra un mal di testa, a
grappoli... ma questi sono mali minori, fisici. Tuttavia, vi dico, non sono un
assassino! Ma non importa. Prima che tutta questa vicenda prendesse il via
vivevo da solo. In una casetta di campagna... un po’ fatiscente, vista da
fuori, ma se ci entrate vedete che è un’altra storia, le pareti riverniciate,
qualche quadretto incorniciato, tutto sommato una casa modesta, d’inverno la
sala da pranzo si scalda con una stufa a legna (ho due gatti che si appisolano
proprio lì vicino), un letto singolo e grande detto ‘prete’, qualche foto dei
miei genitori – ormai non ci sono più – ammucchiata sopra il comodino, poche
cose insomma. In salotto una grande scrivania con i libri ammucchiati,
scartafacci, sapete, scrivo sempre un diario delle mie giornate. Prima di
essere assalito da tutto questo groviglio di circostanze me la cavavo. Due
volte alla settimana mi recavo con la Passat sgangherata, carica di merce
(paccottiglia indiana) al mercato mattutino. Mio cugino, sapete, è uno che si è
costruito una modesta fortuna nell’import-export di prodotti indiani, incensi, profumi,
parei di seta: così ha pensato di darmi una mano, visto che non sapevo come
guadagnarmi il pane, cedendomi a poco prezzo una delle sue licenze di commercio
ambulante per i mercati, insieme a un po’ di merce avanzata, che rivendo a
basso costo, con un guadagno modesto, ma bastevole per i miei bisogni. Sapete,
quando si è scapoli come me, da soli, senza figli, impicci, non occorre molto
denaro. Porto da tre anni lo stesso paio di motose scarpe da trekking. Ho tre
pantaloni beige, di cui uno color stabbio, qualche vecchio maglione, non mi
occorre altro. Vivo da solo (mi ripeto), ma ho dei fedeli compagni al mio
fianco: due gatti e uno splendido cane di grossa taglia, un incrocio tra un
husky e un pastore tedesco. Sapete, loro tre sono meglio di tutti gli uomini
della terra. Moglie e
figli credo che mi renderebbero la vita insopportabile. Mi bastano i miei gatti
e il mio cane. Se ci penso vengo colto dal più acuto sconforto! Dove saranno?
Ora che mi trovo in custodia cautelare nel carcere provinciale, i gatti ho
dovuto lasciarli fuori. Spero che trovino del cibo. Quanto al cane, l’ho dovuto affidare
ad un cacciatore. A un maledetto cacciatore! Ma era l’unico tizio che mi
capitava di vedere più spesso. La mia casa è molto isolata, a due passi da un
fiume, tutto cinto da canneti e boscaglia: ci vanno a cacciare tordi e
allodole. Ho dovuto regalare il mio cane a uno di loro! Se riesco ad uscire di
qui... ma credo che non ne uscirò... c’è come una maledizione, un fatale
influsso attorno a questi fatti che sarò ora costretto a narrare. Non amo molto
raccontare delle storie. In tanti anni non mi è mai accaduto nulla di
rilevante. So solo che quel giorno accadde qualcosa, qualcosa che non saprei ben
spiegare, poiché non so nemmeno se c’è una possibile spiegazione. So solo
che io non l’ho uccisa. Io non ricordo affatto di aver fatto una cosa simile. Ho una buona memoria: ricordo le
traiettorie degli uccelli nel mio cortile a distanza di settimane! È tutta
colpa di quel peluche... di quel tigrotto. Vi dicevo, io ho sempre avuto una
vita regolare. La mattina mi alzavo molto presto, tiravo fuori il mio cane
prima di fare colazione; un cacciatore che passasse di lì poteva perfino
regolare il suo orologio vedendomi uscire di casa: le sette meno un quarto. Due
volte alla settimana andavo in città per fare la spesa; il resto del tempo lo
trascorrevo a rileggere qualche libro tarmato o a scrivere i miei diari... io
so solo che quel giorno colsi dei segni diversi dal solito. Era luglio. Spirava
una brezza di scirocco, mitigata dall’aria marina. Sapete, il mare non è poi
così lontano da casa. Staccai Sissi dalla catena, m’incamminai per il sentiero
che conduceva al fiume: arrivavo sempre fino alla biforcazione, dove c’era una
madonnina di gesso in una nicchia con qualche fiore rinsecchito; mi piaceva
molto il suo viso reclinato e pudico; non sono mai stato un credente ma ciò non
toglie che io amassi quella statuina, quell’immagine... che io l’amassi come
mia madre... accanto c’era una panchina erosa dalla ruggine, dove anni prima si
sedeva un vecchio reduce di guerra, se ne stava lì tutto il giorno, fino al
tramonto, con i suoi occhiali da sole, accarezzandosi la barbetta untuosa, ma
curata, simile a quella di mio padre... per me lui era come un padre... mio
padre e mia madre mi lasciarono presto, cattivi! Cattivi! Farmi piombare all’improvviso in così tante
difficoltà! Tutto sulle mie spalle! Io... io non ricordo quasi più neanche
come morirono...
insomma io col mio cane arrivavo fino alla panchina: quel giorno, non so
perché, proseguii. M’accorsi dei rumori quando cessarono. Cessò il frinire
delle cicale, si attutì il fruscio della sterpaglia e cessò d’un tratto lo
scricchiolio vertebrale dei giunchi. Il fiume era vicino. Lo sentivo. Udivo
solo il fiume, ora. E fu in quel momento che la vidi. Al di là della sterpaglia, dei
canneti, sul terriccio rinsecchito, arido, presso la riva sassosa del fiume,
camminava una ragazzina, forse di quattordici, quindici anni. Indossava una
gonnella bianca a pieghe verticali, che attrasse la mia attenzione, perché
sembrava nuova, o appena lavata. Notai che era inginocchiata, come un
cagnolino: giocava con una tartaruga. Sono rare le tartarughe da queste parti!
Sono altrettanto rare le ragazzine! Ci vengono solo pochi pescatori e
cacciatori. Perché era lì da sola? Perché mi turbava?
riga 27: integrazione: «i gatti ho dovuto LASCIARLI fuori».
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